L'orrore degli abusi. «Storie del genere tolgono colore alla vita»

Un'anteprima del documentario "Nel nome del padre" di Mirko Aretini verrà mostrata nel corso di una serata-evento in programma il 21 novembre
Un'anteprima del documentario "Nel nome del padre" di Mirko Aretini verrà mostrata nel corso di una serata-evento in programma il 21 novembre
ARBEDO-CASTIONE - Venerdì 21 novembre il Centro Civico di Arbedo ospiterà una serata-evento organizzata da Associazione Franca, in occasione della Giornata internazionale ONU per i diritti dei bambini. Il piatto forte sarà la proiezione di un'anteprima di circa mezz'ora di "Nel nome del padre", documentario indipendente del regista ticinese Mirko Aretini. La tematica è molto delicata e straziante: gli abusi sessuali su bambini e minori. Nel caso specifico, compiuti in ambito religioso (in maniera peraltro sistematica) e familiare.
Sono racconti molto crudi quelli condivisi dai protagonisti, di una potenza sconvolgente. Ma c'è anche tutto il "dopo", le conseguenze che si possono trascinare per decenni e i comportamenti che, a volte, hanno peggiorato le cose - segnando a volte irrimediabilmente la vita delle vittime. La visione è consigliata a un pubblico adulto (o da 16 anni, se accompagnati). Alla serata sarà presente il Consigliere di Stato Raffaele De Rosa e nel dibattito post-proiezione interverranno esperti sia in ambito psicologico che giuridico.
Fa un certo effetto sentire la dichiarazione iniziale, fredda e burocratica, che attesta come una persona possa ritenersi vittima e come quello che ha subito abbia segnato la sua intera vita.
«È la certificazione dell'essere vittima, messa per iscritto. Allo stesso tempo è un'ammissione di colpa, che forse fa ancora più male».
La cifra ricevuta dalle vittime è il cosiddetto "contributo di solidarietà": si può dare un prezzo al dolore?
«Gli chiedo "quanto costa il tuo dolore" e in quel caso erano 25mila franchi. Ovviamente non c'è una cifra che possa ripagare quanto subìto, ma se consideriamo l'entità della cifra è, come spiega l'interlocutore, "una mancia"».
Come sei venuto a conoscenza di queste vicende?
«La prima persona la conoscevo già. È stata lei, nel tempo, a raccontarmi la sua infanzia, finché siamo arrivati a scoperchiare il vaso. Sentivo la sua rabbia, ma anche la sua volontà di esprimerla. Quando ho chiesto se volesse raccontare davanti a una telecamera, ha detto subito di sì. Mettendoci la faccia. Nel caso della ragazza, invece, sono stato io stesso a suggerire di non mostrare il volto completo. È giovane, ha tutta la vita davanti e non volevo che le rimanessero addosso delle etichette, come "quella che è stata violentata", "quella che subiva abusi in famiglia"».
Non ci sono nomi, ma solo volti e voci.
«Non c'è nemmeno l'indicazione di dove vivono. Ciò che hanno da dire va oltre ogni cosa. Da parte mia, non pubblicherò mai il viso dei miei interlocutori. Lo vedranno solo i presenti alla proiezione».
Perché hai scelto di fare questo film?
«È una mia piccola missione personale, quella di fare da megafono a persone che vengono viste diversamente o, per vari motivi, vivono ai margini. In questo caso, credo che nei confronti di una vittima una delle cose più importanti sia l'ascolto. Dare la possibilità di esprimere un dolore, senza essere presi per pazzi o tacciati di mitomania».
Avendolo visto, immagino che ci saranno reazioni forti e qualcuno non riuscirà a trattenere le lacrime.
«È probabile. L'ho già testato in forme private e ha sempre creato un profondo disagio, ma anche una scossa emotiva dirompente. Ho visto piangere, ho visto anche chi ha preferito interrompere la visione. Il racconto è duro e crudo pur nella sua essenzialità, crea un orrore mentale tale da metterti in una condizione di disagio e repulsione».
Come ci si pone, da intervistatore e regista, davanti a racconti del genere?
«È importante avere la giusta delicatezza. Però ho deciso di non fare sconti: il racconto appartiene a loro, da parte mia posso solo mettermi all'ascolto, in piena disponibilità verso ciò che hanno da dire. È stato molto importante creare un patto di fiducia: ho il dovere di proteggere e rispettare chi si è affidato a me».
Esiste una catena di abusi e soprusi che, se non s'interviene, rischia di non essere spezzata?
«Impedire che certe cose accadano è quasi impossibile, è purtroppo nella natura di certi esseri umani. Ma è importantissimo, per far sì che qualcuno venga in aiuto, avere il coraggio di denunciare e di parlare. Spero che questo lavoro possa contribuire a far scattare quella scintilla interiore, necessaria per interpellare gli organi competenti, gli istituti preposti all’assistenza».
Perché hai scelto il bianco e nero?
«Una storia del genere non può avere colore. È proprio come togliere colore alla vita».







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