È il consiglio che dà Gabriele Quadri, dialettologo e scrittore che spiega perché l’idioma locale è «ricchezza da salvaguardare», magari anche con l’aiuto della scuola
TESSERETE - Gabriele Quadri, dialettologo, scrittore ed ex professore, racconta il suo punto di vista d'esperto con uno sguardo al passato e con più di una speranza rivolta al futuro.
Come è cambiato il mondo nel corso della sua vita?
«Tantissimo. Ricordo che fino a pochi decenni fa, in Capriasca, il settore principale era il primario. Vi era un culto differente dell’agricoltura e questo favoriva di molto l’interazione tra le persone. Ora è tutto cambiato, anche per le diverse esigenze settoriali. È il terziario, adesso, ad essere padrone. Questo ha modificato anche le realtà linguistiche della popolazione».
Crede che i dialetti debbano essere meglio preservati?
«Assolutamente sì. È indubbio che se tralasciamo il dialetto, abbandoniamo anche l’identità culturale e sociale che esso porta con sé. I diversi dialetti fanno parte della nostra ricchezza regionale e ci ricordano che abbiamo una realtà diversa rispetto ad altre regioni. Sono parte integrante della nostra terra e segnano il percorso da dove veniamo».
Quanto influisce sulla nostra vita questo scarso interesse nei confronti delle tradizioni?
«Provoca una forte crisi identitaria. Non ci si riconosce più come gruppo, ma si tende ad estraniarsi. Dovremmo riappropriarci anche della nostra italianità, culturalmente parlando. La nostra cultura è italiana, così come la nostra lingua ed i nostri dialetti».
Sarebbe giusto introdurre lo studio del dialetto a scuola?
«Certo. I bambini ed i ragazzi ne trarrebbero giovamento. Sarebbe un bel momento per rispolverare e riscoprire il passato».
E la televisione dovrebbe veicolare questa lingua che resta affascinante?
«Sicuramente sarebbe una grande conquista. La tv, così come i media in generale, prediligono messaggi dediti all’intrattenimento. Si basa tutto su questo e lo spazio riservato alle cose importanti è ridotto a poco seguito. È la legge del mercato».
E come vede la tecnologia?
«Credo sia successo tutto troppo in fretta. Penso all’esempio del nonno che regalando il primo telefono al suo nipotino, cerca di insegnargli come usarlo. Il bambino però gli risponde che sa già come funziona. L’eccessiva velocità ha portato ad un cambiamento anche nei ruoli. Un tempo erano gli anziani i possessori della saggezza che la tramandavano di generazione in generazione. Ora non è più così ed è un peccato. Anche qui rischiamo di perdere una grande ricchezza. Si dice che quando muore un anziano è come se bruciasse un’intera biblioteca».
Nella comunicazione cosa è cambiato?
«Prima ci si scriveva per lettera con la persona amata, ad esempio. Oggi quella sensazione di attesa manca. C’è meno desiderio. Ma c’è anche tanto altro di positivo. Credo che i giovani d’oggi siano molto più solidali tra di loro, a differenza di alcuni delle vecchie generazioni».
C’è una lingua dell’amore?
«Si diceva fosse il francese. In realtà l’unica lingua dell’amore è quella che viene dal cuore».
Ma la parlata è sempre meno di casa
«Vocaboli ed espressioni dialettali possono costituire oggetto di discussioni a scuola». Ma un insegnamento della parlata ticinese «sarebbe invece scolasticamente impraticabile». A ribadirlo, lo scorso ottobre, è stato il rapporto del Governo sull’iniziativa parlamentare elaborata da Nicholas Marioli. Mancano grammatiche e dizionari per allievi, la spiegazione, ma soprattutto «coesistono diverse parlate» il cui studio è piuttosto materia universitaria. Il giovane deputato nel frattempo non è stato rieletto e anche la sua proposta sembra avere poche chanche di successo.
Fuori dalla classe, nonostante qualche segnale di resistenza tra i ragazzi delle valli, le statistiche mostrano l’inesorabile estinzione delle persone che parlano il dialetto fra le mura di casa: l’erosione appare costante, di anno in anno, si è passati da 34’994 nel 2010 a 29’421 nel 2017. Il calo è del 16% in sette anni. SPI