La vendita di materiale bellico frutta montagne di soldi: 446.8 milioni di franchi nel 2017. Quali sono le aziende che le producono? E a quali Stati vengono vendute?
LUGANO - È vero siamo neutrali. Almeno in teoria. Ma quello che ci viene maggiormente rinfacciato è che quando si tratta di alimentare guerre attraverso la vendita di armi, il nostro Paese non si fa troppi scrupoli.
È notizia di questi giorni che venendo incontro alla richieste sempre più pressanti delle aziende produttrici, il Consiglio federale ha fatto sapere che intende rendere possibile l'esportazione di materiale bellico anche verso Paesi dilaniati da guerre civili e conflitti interni, allentando le maglie – peraltro già piuttosto larghe – che regolano le forniture di armi e strumenti di distruzione.
Da anni, d'altro canto, la Svizzera fornisce materiale bellico in tutto il mondo, in Germania come in Sudafrica, in Brasile come negli Stati Uniti. Armi che, non si sa bene attraverso quali intricate vie, sarebbero arrivate persino ai terroristi dell'Isis: bombe a mano fabbricate nella Confederazione sono state recentemente ritrovate e sottratte in una delle ultime roccaforti del Califfato nella regione di Idlib, in Siria. Ma chi sono le aziende che producono armi? E quanto incassa la Confederazione dall'esportazione di materiale bellico, che potrebbe aumentare ulteriormente nel prossimo futuro?
LA LOBBY DELLA MORTE
Le bombe finite chissà come in Siria sono state confezionate dalla Ruag, una delle maggiori fabbriche svizzere specializzate in armamenti (nel 2017 è stata la novantesima al mondo per ricavi, stimati in 820 milioni di dollari). Lo ha ammesso un portavoce dell'azienda, dopo aver esaminato le foto scattate al momento del ritrovamento. Ruag, non a caso, in prima linea nella richiesta al governo, formulata a settembre dell'anno scorso, di ammorbidire le norme sull'esportazione di materiale bellico. Una piccola lobby, quella degli armamenti in Svizzera. Con marchi ben noti in tutto il mondo come la stessa Ruag, la Systems Assembling, la Rheinmetall, la Thales o la General Dynamics European Land System - Mowag.
Tutte aziende firmatarie, lo scorso anno, di un documento in cui si chiedeva al Consiglio federale di ammorbidire le norme sull'esportazione di materiale bellico verso stati coinvolti in conflitti armati interni, per allineare le condizioni di competitività delle aziende elvetiche a quelle di altri paesi europei. Richiesta esaudita qualche mese più tardi dai governanti, con la generica rassicurazione che l'autorizzazione alla vendita riguarderà sostanzialmente armi con carattere difensivo, quali ad esempio cannoni antiaerei, e non carri armati, granate o fucili d'assalto, almeno per quei paesi in cui è in corso un conflitto armato. Basterà per evitare altri “ritrovamenti” di armi offensive di fabbricazione svizzera in teatri di guerra, magari negli arsenali di eserciti del terrore o di gruppi fondamentalisti?
LE CIFRE DEL BUSINESS
Gli imprenditori delle ditte produttrici, del resto, lamentano una contrazione nelle esportazioni che le fornitura all'esercito svizzero, che ogni anno acquista armi e materiali per cinque miliardi di franchi, non riescono a bilanciare. A rischio conti, bilanci e posti di lavoro, con conseguenti gravi ripercussioni sociali e sull'economia locale. La contrazione in effetti negli ultimissimi anni c'è stata, anche se nel lungo periodo è cambiato poco. Già nel 1983, infatti, la Svizzera esportava armi per 377,2 milioni di franchi, nel 1995 ha toccato il minimo storico con appena (si fa per dire) 141,2 milioni, per poi salire progressivamente verso il clamoroso picco del 2011: 872,7 milioni. Proprio dopo quel boom si sono fatti sentire gli effetti dell'applicazione delle norme più restrittive sulla vendita, in particolare delle modifiche all'OMB (Ordinanza sul materiale bellico) introdotte nel 2008, con le limitazioni riguardanti i paesi afflitti da guerre civili. Il giro d'affari si è di fatto dimezzato, raggiungendo il minimo di 411,9 milioni nel 2016. Nel 2017 le esportazioni belliche della Svizzera hanno fruttato 446,8 milioni di franchi, circa lo 0,15% del totale dell'export del paese.
IN CORSA PER LA TOP TEN
A livello internazionale la Confederazione è all'undicesimo posto tra i paesi produttori di armi, subito dietro superpotenze come Stati Uniti, Russia, Francia, Germania, Cina, Regno Unito, Spagna, Israele e Italia. Per usare una similitudine podistica, sgomita con l'Olanda per entrare nella top ten mondiale, piccolo grande paradosso per un paese da sempre neutrale. Ma a chi vendono i loro prodotti le fabbriche elvetiche? L'Arabia Saudita è stato il principale importatore nel quinquennio 2013-2017 con il 20% del totale, davanti a Cina (17%) e Stati Uniti (11%). Più indietro Germania, Sudafrica e Brasile. La fonte è il rapporto 2017 del Sipri, lo Stockholm International Peace Research Institute, il principale istituto di ricerca mondiale nel settore. Con l'abolizione delle limitazioni potrebbero però risalire le percentuali d'acquisto di paesi come Qatar, Giordania e Pakistan, che prima delle restrizioni erano tra gli acquirenti più affezionati, o anche di altri paesi del Medio Oriente.
L'ITER LEGISLATIVO E LE RECENTI “CONCESSIONI”
L'autorizzazione alle esportazioni di materiale bellico sono di pertinenza della Segreteria di stato dell'economia (Seco), del Dipartimento Federale degli Affari Esteri (DFAE) o di altri dipartimenti, che decidono in base alla LMB (Legge federale sul materiale bellico), alla già citata OMB e alla prassi interpretativa del Consiglio federale. Dopo il varo di misure più restrittive nel 2008, i livelli di attenzione della pubblica amministrazione si sono progressivamente attenuati e i successivi interventi legislativi in materia sono stati decisamente più permissivi. L'OMB è stato modificato ulteriormente nel 2014 con una norma piuttosto sibillina e per certi versi ossimorica che consente di esportare materiale bellico anche in paesi che violano in modo grave e sistematico i diritti umani, purché il rischio che le armi siano impiegate per commettere gravi violazioni dei diritti umani sia valutato come “esiguo”. Nel 2016 invece il Consiglio federale ha autorizzato l'esportazione di pezzi di ricambio e munizioni per il sistema di difesa antiaerea in Arabia Saudita, nonostante l'intervento del paese mediorientale nel conflitto in Yemen. Polemiche e sospetti si sono regolarmente registrati, poi, a proposito della mancanza di controlli da parte delle istituzioni nei confronti delle aziende produttrici.
LE ACCUSE: MANCANZA DI CONTROLLI E DI DISTANZA CRITICA DALLE IMPRESE
Il recentissimo rapporto del CDF, il Controllo federale delle finanze, che ha preso in esame il trasferimento di materiale bellico nel 2016, ha scoperchiato il vaso di Pandora evidenziando come “le modifiche di ordinanze e la prassi interpretativa negli ultimi 20 anni hanno portato un’attuazione della LMB (Legge federale sul materiale bellico), piuttosto favorevole all’economia. Per garantire una maggiore trasparenza e certezza del diritto, la prassi interpretativa della LMB dovrebbe essere recepita nell’OMB e pubblicata in una forma appropriata. Nell’esercizio della loro funzione di autorità preposte al rilascio delle autorizzazioni e al controllo del materiale bellico, la divisione della SECO Controlli delle esportazioni e sanzioni, in generale, e la sezione Controllo degli armamenti e politica di controllo degli armamenti, in particolare, dovrebbero mantenere una distanza critica dalle imprese monitorate e dai loro lobbisti”. Inoltre, la CDF ha sottolineato che “è necessario aumentare il numero di controlli in base ai rischi presso le imprese”, che “la «rete di controlli della Confederazione» per le esportazioni di materiale bellico è troppo diradata e insufficientemente coordinata” e che “l’industria sfrutta nuove opportunità di esportazione tramite leggi, ordinanze e prassi interpretative”. Insomma, una critica manifesta a tutto il sistema di governance delle esportazioni di armi, prima ancora che siano sdoganate le nuove norme ancor più benevole nei confronti dei produttori.
A CINQUANT'ANNI DAL CASO BÜHRLE
Nulla di nuovo sotto il sole, comunque, se si pensa che proprio nel 2018 ricorre il poco edificante cinquantennale del caso Bührle, il primo grande scandalo in Svizzera legato all'export di armi. Nel giugno del 1968 l'ambasciatore elvetico in Nigeria venne in possesso di dati e incartamenti che provavano in modo incontrovertibile la vendita di un centinaio di cannoni al paese africano da parte della Werkzeugmaschinenfabrik Oerlikon di Dieter Bührle, un'azienda svizzera, in palese violazione del divieto stabilito l'anno precedente dalle autorità nazionali. La Nigeria era impegnata in una vera e propria guerra contro i secessionisti del Biafra e i cannoni della Bührle, nelle mani dei militari locali, arrivarono addirittura a minacciare gli aerei della Croce Rossa impegnati nei soccorsi umanitari ai rivoltosi che avevano proclamato l'indipendenza. Si scoprì che i cannoni erano stati venduti fittiziamente all'Etiopia e poi dirottati in Nigeria, si scoprì soprattutto che le forniture riguardavano altri paesi sottoposti a embargo come Egitto, Israele, Sudafrica, Arabia Saudita, Libano e Malaysia. Le pene per i rappresentanti della Werkzeugmaschinenfabrik Oerlikon? Otto mesi di reclusione e multa di circa 20mila franchi al direttore Bührle per violazione del decreto sul materiale bellico, condanne tra i 15 e i 18 mesi di reclusione a tre collaboratori per falsità in documento. Per tutti fu applicato il beneficio della condizionale. Insomma, punizioni più che miti. Quasi nulle. Cinquant'anni dopo, sembra davvero cambiato poco.