Sempre più persone convivono con tumori e terapie. «Pazienti e famigliari iper esigenti dopo il Covid», dice la specialista Sara De Dosso.
BELLINZONA - Sempre più under 50 confrontati con tumori. In un contesto, quello europeo, che vede ormai colpita una persona su venti. Intanto, dopo la pandemia da Covid, pazienti e famigliari sono sempre più esigenti. «Pretendono risposte esatte. E ci perdonano sempre meno», spiega Sara De Dosso, vice primaria di oncologia medica presso lo IOSI di Bellinzona (EOC).
Solo allo IOSI vedete oltre mille pazienti nuovi all’anno.
«Secondo le statistiche svizzere più del 60% dei pazienti è in vita a 5 anni dalla diagnosi di cancro. I tumori più diffusi sono quelli al polmone, al colon, alla mammella, alla prostata. Sta aumentando il numero di persone giovani che hanno un tumore. Tra gli under 50 sono aumentati del 79,1% tra il 1990 e il 2019».
Che spiegazione si dà?
«Viviamo sempre più nello stress e con cattive abitudini. Così il nostro sistema immunitario si indebolisce. E non è pronto in caso di difficoltà».
Perché l’indebolimento del sistema immunitario è cruciale in tal senso?
«Noi produciamo costantemente delle cellule potenzialmente dannose. E di regola il sistema immunitario le intercetta. Se il sistema immunitario è debole, invece, rischia di non farcela a reggere».
Servono screening ancora più precoci?
«Attualmente si parte dopo i 50 anni. Vista la frenesia in cui è avvolta la società varrebbe la pena anticipare, certo. Almeno per certi tipi di tumore. La prevenzione però è anche una questione di politica sanitaria».
Fatte simili premesse, la comunicazione a pazienti e famigliari è sempre più importante.
«Sì. Dobbiamo adattare il modello comunicativo alla persona che abbiamo davanti. Fornire tutte le informazioni possibili senza togliere la speranza».
Eppure a volte ci sono medici che si lasciano andare a previsioni catastrofiche, violando questo principio.
«Non dovrebbe accadere. Però siamo esseri umani e possiamo sbagliare nelle valutazioni. Io ho imparato sulla mia pelle che è meglio non fare mai previsioni. A inizio carriera ricordo un pazienze che, secondo le statistiche, aveva il 90% di possibilità di guarigione. Non riuscì a farcela. Al contrario a un altro paziente, sempre stando ai miei studi, avevo detto che sarebbe morto in poco tempo. Così non è stato».
Cosa le hanno insegnato queste due esperienze?
«Che non ci si può basare solo sulle statistiche. Nel momento in cui un paziente inizia la chemioterapia noi non sappiamo mai che storia avrà. Attualmente siamo bravi nel fare previsioni quando la morte è imminente, vale a dire entro i tre mesi. Per il resto è meglio non dare mai risposte certe. Si può parlare di tendenze, di possibili scenari».
Si dice che le cure stiano sempre più portando alla cronicizzazione della malattia. È così?
«Sì. Diciamo che quando la malattia esce dall’organo di origine, il controllo dell’evoluzione del tumore diventa complicato. Però nell’ultimo decennio sono state fatte scoperte che possono bloccare l’avanzata di un tumore. O allontanarne il più possibile il risveglio. La persona malata riesce dunque a convivere con la malattia».
Le cure assumono un duplice valore.
«Da una parte si prolunga la vita del paziente. Dall’altra lo si aiuta ad avere una certa qualità di vita. È un traguardo che inseguiamo anche grazie alla psico oncologia».
I pazienti vogliono sapere quanto resta loro da vivere?
«Tendenzialmente non chiedono. E noi rispettiamo questa scelta. Anche perché, come detto, fornire una deadline è sempre un azzardo. Sono soprattutto i più giovani a volere avere sotto controllo la situazione in prima persona. Al primo incontro il paziente deve definire il tipo di comunicazione che desidera. E quanto la famiglia debba essere coinvolta».
Come comunicate gli effetti collaterali delle cure oncologiche?
«In trasparenza totale. Dobbiamo elencarli tutti. Anche se non è detto che si presenteranno».
E se qualcuno si illude di potere guarire quando ha poche possibilità?
«È chiaro che se una persona con un cancro grave fa proiezioni realistiche su come sarà tra 20 anni, magari cerchiamo di capire come mai ha aspettative del genere. Detto ciò, la speranza va rispettata. E poi ci sono le guarigioni miracolose. Ognuno di noi ne ricorda alcune».
Insomma, sapete tante cose. Ma non tutto. È frustrante?
«Un po’ sì. Pazienti e famigliari vorrebbero avere da noi risposte che non siamo in grado di dare. Proprio perché la scienza sul tema è in continua evoluzione. Soprattutto dopo la pandemia da Covid c’è stato un aumento di pretese nei nostri confronti. Non si ammettono più sbavature. C’è una crescente iper sensibilità. Forse perché si è capito che la salute è il nostro bene più prezioso».
Vi capita di portarvi il lavoro a casa?
«È un mestiere che coinvolge emotivamente. Non dobbiamo farci travolgere altrimenti perdiamo la lucidità. Ci sono pazienti con cui troviamo punti comuni col nostro vissuto. Se si supera una determinata soglia di empatia, dobbiamo essere bravi a farci aiutare. Abbiamo a disposizione consulenti preparati e gruppi di auto ascolto. La forza del team fa la differenza».