Tanta fatica, ma ora Susan è felice


Susan Bandecchi: «Stavo in campo e stavo male, ho pensato di smettere»
«Tutte le settimane cambi paese, cultura, modo di mangiare, hotel, letto, cuscino. Io ho un fidanzato che vedo pochissimo».
Susan Bandecchi: «Stavo in campo e stavo male, ho pensato di smettere»
«Tutte le settimane cambi paese, cultura, modo di mangiare, hotel, letto, cuscino. Io ho un fidanzato che vedo pochissimo».
MILANO - Una determinazione feroce, mostrata già in famiglia davanti a un bivio importante, una classifica che conta ma alla quale non fare troppo caso, un ragazzo che in alta stagione vede più in video che di persona. Susan Bandecchi è innamoratissima del suo tennis, anche se questo suo amore l’ha, in più di un’occasione, messa duramente alla prova.
«Lo scorso anno, per esempio, quando vedevo che proprio non riuscivo a ottenere i risultati che mi aspettavo, quelli che erano normali prima dell’infortunio del 2022, ho pensato di smettere - ci ha raccontato proprio la 26enne ticinese, nazionale svizzera in Billie Jean King Cup - appena rientrata avevo fatto bene e questo mi aveva un po’ illusa. Quando poi, invece, sono arrivate le difficoltà, semplicemente non ero pronta. Stavo in campo e stavo male, continuavo a ripensare a quando tutto girava per il verso giusto e facevo paragoni. E mi convincevo che non sarei più riuscita a tornare al mio livello. Così, più di una volta, mi è passato per la testa di mollare. È stato difficile risalire, ce l’ho fatta grazie all’aiuto del mio psicologo, che mi aveva avvisato fin dall’inizio che recuperare, mentalmente prima ancora che fisicamente, sarebbe stata dura».
Al momento numero 184 della classifica WTA, l’obiettivo è la top-100?
«No, non ho un obiettivo a livello di ranking. Lo facevo, anni fa, e mi creavo pressioni inutili, mi fissavo. Con il tempo e l’esperienza ho invece imparato che il risultato è la conseguenza di come hai lavorato. Se ti sei impegnata a fondo, stai bene, fai tutto quello che devi, il risultato arriva poi di conseguenza. Mi concentro piuttosto sulla prestazione. Va bene vincere o perdere, ma l’importante è come arriva il risultato. È stato ancora il mio psicologo che mi ha spinta a levarmi dalla testa il numero 100. Mi ha detto: “Inventati un’altra cifra, 64, 80, quella che vuoi, e non pensare solo a quella. La tua fissazione non deve essere sulla classifica ma sul cercare di migliorare”. Poi, è ovvio che voglio crescere, avvicinarmi il più possibile alle big, ma appunto quella deve essere una conseguenza di quel che faccio».
Hai più volte sfiorato gli Slam: hai giocato le qualificazioni, mai nel tabellone principale. Quanto ti manca per arrivarci?
«Secondo me non sono lontana. Ci stavo pensando proprio negli ultimi giorni: nell’ultimo torneo che ho fatto ho battuto tre ragazze che parteciperanno alle qualificazioni del Roland Garros. Quindi… le avessi trovate a Parigi, sarei passata. Penso che il livello tra noi sfidanti sia molto simile. Dunque credo che mi basterebbe imbroccare tre partite buone, la settimana giusta - che detto così sembra facile - per farcela. Potrebbe accadere subito o anche più avanti, ma sono lì».
Fare la tennista: è stato difficile convincere la tua famiglia?
«Insomma... L’idea di voler giocare seriamente l’ho maturata molto presto, già alle medie. In quel periodo mi allenavo sei-sette ore a settimana e nei weekend facevo qualche torneo internazionale. Poi ho cominciato il liceo e devo ammettere che il primo anno è stato un inferno: mi svegliavo, andavo a scuola, mia mamma veniva a prendermi e mi portava ad allenamento, poi tornavo a casa, studiavo e andavo a letto. Così, ripetuto. Niente tornei, né altro. Non ce la facevo più. Alla fine dell’anno ho così preso coraggio e ho chiesto una “riunione” ai miei. Lì ho detto loro che avrei voluto provarci, che se avessi cominciato a fare sul serio con il tennis a 20 anni, finita la scuola, sarebbe stato troppo tardi. Papà ha storto il naso, mentre mamma mi ha appoggiato. “Non voglio che un giorno nostra figlia ci rinfacci che non l’abbiamo lasciata provare”, ha ammesso. Così sono andata a Milano in un’accademia e… dopo due giorni ho chiamato casa per avvisare: “Io rimango qui”. Ed è così da undici anni».
In tanto tempo ti sei costruita una carriera. Ma con il tennis, ti tornano i conti?
«È andata un po’ a periodi. All’inizio, ovviamente no: i miei mi sostenevano mentre io davo una mano quando potevo. E ho fatto fatica anche quando mi sono infortunata e sono andata indietro nel ranking. Nel tempo, comunque, grazie anche a sponsor come Head Tennis, Health hub Como e Wonder Yachts, trovati anche grazie all’agenzia Maad e alla mia manager Laura Bozzone Paternoster, sono diventata molto più indipendente. Gioco anche i vai Interclub a squadre per arrotondare e… diciamo che così faccio quadrare i conti. Quando arrivi a fare le qualifiche degli Slam, poi, riesci quasi a guadagnare qualche soldo».
Abitudini precise nelle settimane “vuote”, nessuna certezza quando ci sono i tornei: questa vita da zingara ti pesa?
«No, mi piace e so di essere molto fortunata. Certo, non è semplice, perché non stai mai con la tua famiglia, sei sempre in giro, tutte le settimane cambi paese, cultura, modo di mangiare, hotel, letto, cuscino: anche riposare è, a volte, complicato. Poi non riesci a stringere amicizie e anche con i legami è dura: io ho un fidanzato che vedo pochissimo. Insomma, se non hai una grande passione non puoi farlo. Viaggiare è però pure una gioia. Negli anni ho imparato anche a fare un po’ la turista: qualche mezza giornata qua e là. Invece di fare solo aeroporto-hotel-campo, mi ritaglio il tempo per scoprire le città nelle quali sono organizzati i tornei».
Il tuo fidanzato, che hai nominato, non riesce a seguirti?
«Andrea è un maestro di tennis e vive a Reggio Emilia. Quando non mi sentivo più a mio agio con il mio sport, ho anche pensato di raggiungerlo e cominciare a convivere. Ora abbiamo il nostro equilibrio, anche se a volte ci vediamo molto poco. A Pasqua o d’estate riusciamo a stare insieme, in generale però abbiamo momenti per noi ogni due-tre settimane e in alcuni periodi nemmeno quello. Quando mi hanno convocato per la Billie Jean King Cup ero da lui. Mi ero detta: “Mi faccio un weekend di relax”, poi invece è arrivata la chiamata. Ma che emozione: eravamo entrambi felicissimi».
Rémy Bertola ci ha raccontato delle minacce e degli insulti che riceve continuamente dagli scommettitori. Che vinca o che perda. Nel tennis femminile è lo stesso?
«Uguale. I miei post su Instagram possono essere commentati solo da chi seguo e dopo ogni partita mi arrivano moltissime richieste. Io le apro solo per bloccarle, ma le vedo. Mi augurano il peggio: la morte o che a mia madre venga il cancro. O mi dicono che sanno dove vivo e che verranno a uccidermi. All’inizio, a 17-18 anni, ci rimanevo malissimo e mi spaventavo pure, adesso invece non ci faccio più caso. Sono dei poveracci. Certe persone non stanno bene: per aver perso 10 euro, dal divano e magari senza aver visto la partita, ti dicono di tutto. Le ignoro e stop. È l’unica soluzione».




