«Io, donna curda, torturata per la libertà»

In un’esplosione in Turchia muore il cugino di una coppia di rifugiati politici che vive in Ticino. È l’ennesimo capitolo della dolorosa storia di una 40enne perseguitata dal Governo di Ankara.
CHIASSO - Martedì 10 maggio, ore tre e mezza del pomeriggio. Un veicolo della polizia, che trasportava 7 presunti militanti del PKK, esplode nel centro di Diyabarkir, città curda del sud est della Turchia. Tre i morti, diversi i feriti. A bordo di quel veicolo, prigioniero, c’era anche il cugino di S.T. (40) e M.T. (45), rifugiati politici curdi che da diversi anni vivono a Chiasso. Per S. è la goccia che fa traboccare il vaso. «La Svizzera ci ha salvati - dice S.T. - . Siamo qui in Ticino e non possiamo fare nulla per i nostri cari rimasti in patria. Però è giusto che il mondo sappia come sono trattati i curdi in Turchia».
Versioni contrastanti - Il Governo di Ankara lo ha definito “un attacco terroristico”. E la responsabilità, secondo le fonti governative turche, sarebbe da attribuire al PKK, il partito dei lavoratori del Kurdistan che si batte per garantire maggiore autonomia alla più grande minoranza del Paese. S.T. racconta la versione che gli è stata riportata dalla gente del posto: «Le autorità, dopo l’esplosione, hanno fatto sparire tutto. Come se ci fosse qualcosa da nascondere. Ma perché il PKK avrebbe dovuto fare esplodere un furgone che trasportava alcuni suoi militanti? Non ha senso. Nostro cugino, tra l’altro, non militava più da tempo nel PKK. La verità è che se nasci curdo, fai una vita infame. E che la stampa turca è manipolata dal Governo».
Dietro le sbarre a 13 anni - La storia di S.T. è di quelle che fanno venire la pelle d’oca. Tredici anni fa è stata costretta a fuggire dalla sua terra. «Davo fastidio. Sono una persona che si è sempre battuta per i diritti della donna. Sono stata in carcere ben otto volte nella mia vita, la prima a 13 anni mentre manifestavo contro la soppressione della festa del lavoro. Non mi sono mai piegata davanti al potere. E ho pagato a carissimo prezzo la mia voglia di ribellarmi».
La madre che piange - Oggi S.T. vive in un quartiere di Chiasso, con il marito M.T. e con il figlio adolescente. «Quando sono scappata dalla Turchia mio figlio aveva otto mesi - riprende S.T. - . L’ho rivisto solo dopo 7 anni. Da circa 3 anni ci ha raggiunti anche mio marito. In Ticino cerchiamo di ripartire. Ma non è facile. Tutti i giorni chiamo in Turchia, e sento mia madre piangere. C’è sempre tanta confusione».
Libertà sconosciuta - Laureata in ingegneria civile, S.T. ha lavorato a lungo per il Partito Democratico del Popolo (HDP). «In un Paese islamico la donna non è mai libera. Io questo non lo potevo accettare. E allora organizzavo manifestazioni e proteste. Ero malvista. Perché sono curda e perché sono donna. Mi hanno torturata tante volte. In Turchia non esiste la prigione senza tortura per un curdo. È matematico».
Lacrime - S.T. parla della sua infanzia. Di lacrime amare che, ogni giorno, sgorgavano dai suoi occhi scuri. «Sono cresciuta in una famiglia benestante. Ma vedevo tante ingiustizie verso le donne e verso i deboli».
Condanna pesantissima - È il 3 novembre del 2002, quando S.T. capisce che deve lasciare la Turchia. «C’erano appena state le votazioni. Mia madre un giorno mi chiama e mi dice che la polizia mi sta cercando, di nuovo. La situazione era grave. Nessun avvocato avrebbe potuto salvarmi stavolta. Il Governo mi riteneva responsabile di diverse manifestazioni. Avrei subito una condanna pesante».
Via a piedi - E così S.T. si nasconde per due mesi a casa di amici, meditando la fuga. Un passaporto macedone falso le permette di entrare in Macedonia. Da lì in poi sarà un lungo peregrinare, a piedi, in giro per l’Europa. Fino alla primavera del 2003. «In quel periodo ho raggiunto la Svizzera. Sapevo che qui avrei trovato ospitalità. Ho chiesto asilo politico al campo profughi di Kreuzlingen. Poco più tardi mi hanno trasferita a Chiasso».
Vite in pericolo - Da qualche tempo S.T. e M.T. hanno ricevuto il permesso per rifugiati. «L’obiettivo per il futuro - riprende S.T. - sarebbe quello di ricevere un permesso C, o magari addirittura il passaporto svizzero. Ormai è chiaro che non possiamo più tornare in Turchia. Rischiamo la vita. Anche mio marito, solo per il fatto di essere sposato con me. Per noi la Svizzera rappresenta una seconda possibilità».
In cerca di un lavoro - La coppia di curdi, nel frattempo, sta cercando un lavoro. «Mio marito in Turchia era un vice direttore di banca. Stavamo molto bene a livello economico. Vorremmo rimboccarci le maniche, darci da fare per provvedere al nostro sostentamento. Siamo felici per nostro figlio, si è integrato bene in Ticino».
Incertezza - Il pensiero, tuttavia, è sempre rivolto alla situazione in Turchia. «Le nostre famiglie - ribadisce S.T. - continuano a essere perseguitate. E la cosa che fa più male è vedere che i curdi vengono sempre associati al terrorismo. Quando in realtà noi chiediamo solo un po’ di giustizia. Un giorno mio fratello è stato beccato a leggere un giornale “proibito” ed è stato condannato a 8 anni di carcere. Chi non la pensa come quelli che stanno al potere, rischia la vita. Così è stato per nostro cugino. Temo per la salute di sua moglie e dei suoi figli. Ora cosa ne sarà di loro?»




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