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MATTHEW BARNEY

A colloquio con l'autore del ciclo "Cremaster" presentato interamente al Festival

A colloquio con l'autore del ciclo "Cremaster" presentato interamente al Festival
Erik Bernasconi  E’ passata giovedì notte in Piazza Grande la criptica maratona estetica di  Cremaster 3,  ultimo episodio nato di una composita opera che ha richiesto 8 anni di lavorazione. Abbiamo incontrato Matth...

Erik Bernasconi 
E’ passata giovedì notte in Piazza Grande la criptica maratona estetica di 
Cremaster 3, 
ultimo episodio nato di una composita opera che ha richiesto 8 anni di lavorazione. Abbiamo incontrato Matthew Barney, ex giocatore di football americano e modello, che è regista, interprete e ideatore del progetto, e abbiamo potuto così farci svelare alcune chiavi di lettura per interpretare meglio questo ciclo che ha attraversato la seconda settimana del Festival. 

Che senso ha la progressione numerica dei cinque episodi e perché sono stati girati in disordine? 
« Il ciclo segue un percorso geografico verso est. Parte dall’Idaho, in 
Cremaster 1, 
e passa per lo Utah, per New York, per l’isola di Man nel mare d’Irlanda, e arriva a Budapest, in 
Cremaster 5. 
Il primo episodio è ambientato nella mia città, nello stadio in cui ho giocato, e costituisce così un inizio assolutamente biografico per poi contaminarsi con luoghi che assumono un significato mitologico.
C’è una transizione progressiva dall’autobiografico al mitologico, con il finale a Budapest, la città natale di Harry Houdini.
L’ordine con cui li ho girati è casuale, escludendo 
Cremaster 3, 
che ho sempre pensato come l’ultimo » . 

Come mai? 
« Per spiegarlo è utile capire che l’intero progetto è una meditazione sui miei processi creativi, articolata in cinque stazioni ( riflesse in cinque stati dell’essere, in cinque luoghi, in cinque narrazioni). Il primo momento è quello della genesi dell’idea, seguito poi dal suo rifiuto. La terza stazione vive un rapporto narcisistico con l’idea, che assume dunque grande forza, seguita poi dal panico che sopravviene quando ci si rende conto che l’idea sta per essere realizzata e pubblicata, cosa che avviene nel quinto stato, che equivale alla morte. E perciò il terzo episodio, che è ambientato in cima al grattacielo Chrysler, funge da specchio che riflette l’intero progetto e quindi il concetto narcisistico del rapporto con lo stesso. È per questo che gli altri quattro film dovevano essere finiti, per funzionare come un coro attorno al corpo centrale, che è il Chrysler Building. In effetti in 
Cremaster 3 
compaiono sempre elementi che rappresentano gli altri quattro film » . 

Qual è stata la spinta per un progetto della durata di otto anni, che creasse un’operamondo? 
« Prima del ciclo 
Cremaster 
avevo già realizzato dei video o delle sculture legate a dei luoghi specifici. L’idea di realizzare un’opera ambientata in più luoghi è stata quindi un’espansione del lavoro precedente, il passaggio ad una scala superiore, così come può essere interessante andare verso il piccolo, riportare cioè un sito verso un corpo, verso qualcosa di microscopico. Quel che mi affascina è vedere cosa succede quando si cambia la scala di grandezza » . 

Come ha scelto il nome del muscolo « cremaster»,e perché lo ha assunto come titolo dell’opera? 
« Stavo riflettendo in termini biologici sulla nozione di forma e sull’evoluzione degli stati di differenziazione delle forme. Mi sono concentrato sullo sviluppo dei sistemi riproduttivi nel feto, all’inizio indistinguibili, e ho trovato che fosse un modello interessante per il mio progetto e ne sono rimasto quasi ossessionato. Il nome mi è stato suggerito da un amico medico.
Tutto il ciclo parla dei sistemi riproduttivi: quando quelli maschili e femminili non sono in posizione paritaria, vi è un conflitto e dunque la necessità di avere un elemento che lo gestisca. In un’analogia biologica, il muscolo cremaster può svolgere questa funzione » . 

Quanto è cambiato il progetto nel corso degli otto anni? 
« Gli ingredienti essenziali sono rimasti gli stessi. Quel che è mutato è stato il modo di lavorare e di presentare le opere. Il primo episodio girato ( il quarto) doveva essere mostrato in televisione, cosa che non è successa. Per un caso fortunato è stato mostrato al cinema, ma il progetto originario era più legato all’idea di installazione da proporre in un luogo preciso e doveva essere accompagnato da video e sculture » . 

Considera videoarte e cinema due arti distinte? 
« Sì, credo che le intenzioni siano di solito differenti, ma ci sono molti esempi di film che raggiungono ciò che la videoarte vuole esprimere. Non so invece quanto spesso accada il contrario » . 

Pensa di aver gettato un ponte fra queste due forme artistiche? 
« Se devo proprio classificarmi, mi considero piuttosto uno scultore, quindi non appartengo a nessuna delle due tradizioni.
Non sono un videoartista e come cineasta la mia preoccupazione è di creare relazioni fra gli oggetti muovendo le immagini.
Nel caso di 
Cremaster, 
ho voluto fondare un testo che generasse oggetti e che fosse una risposta ad essi. In questo modo le sculture diventano sempre più narrative » . 

La forte presenza di fluidi in tutta l’opera è un modo per dare la possibilità agli oggetti di autoscolpirsi? 
« Io parlo sempre del corpo. Anche il grattacielo Chrysler nel numero 3 è un corpo, certo su scala più grande. La narrazione passa inevitabilmente attraverso i corpi, e i fluidi garantiscono la lubrificazione che permette l’attraversamento di questo corpo, cioè l’assorbimento e l’elaborazione dell’idea in esso. » 
Quali sono i suoi riferimenti cinematografici? 
« Prima guardavo molti film. Ora sono in un momento in cui mi interessa maggiormente esplorare altre forme d’arte come la danza, il teatro. Ciò che mi interessa nel cinema sono le specificità proprie ad ogni genere. Sono sempre stato attratto dall’horror, per la sua struttura semplice e per la forte relazione con gli spazi. » 
Cosa sta progettando, al momento? 
« Sto lavorando ad un pezzo permanente che sarà inserito nel palazzo del Forum di Barcellona nel 2004. Non intendo dedicarmi subito ad altri lavori cinematografici, ho bisogno di sperimentare un po’ » . 

Erik Bernasconi , CdT

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