Alla fine sono solo due i candidati alla successione di Viola Amherd. Motivazioni personali o c'è altro? Ne parliamo con Nenad Stojanovic
I candidati ufficiali sono Markus Ritter e Martin Pfister. La decisione finale del Centro sulla loro candidatura è attesa per il 21 febbraio.
BERNA - Due nomi da poter stampare sul "ticket" il Centro - prima che suonasse il gong oggi a mezzogiorno; termine ultimo per mettersi in corsa per succedere a Viola Amherd in Consiglio federale - li ha trovati. Dopo la candidatura, ufficializzata la scorsa settimana, del consigliere nazionale sangallese Markus Ritter, oggi ha infine sciolto le riserve anche Martin Pfister, attuale consigliere di Stato di Zugo. Due sì a fronte di una cascata di no che hanno messo il partito sotto pressione, generando probabilmente - a suon di titoli e prime pagine - anche qualche imbarazzo.
Di certo è uno scenario che non si vede spesso. «Da quando seguo le elezioni del Consiglio federale, si parla di 25 anni, è la prima volta che si assiste a un fenomeno del genere. Di solito è proprio il contrario: molti pretendenti e i partiti che hanno l'imbarazzo della scelta», osserva Nenad Stojanovic, professore di Scienze politiche all'Università di Ginevra.
Motivi personali o un dipartimento che nessuno vuole?
«Le ragioni di questa riluttanza possono essere di diverso genere. Possiamo fare due tipi di approccio. Possiamo basarci sulle motivazioni ufficiali dei vari candidati - da chi non se la sente a chi ha i figli piccoli - e credergli. Spesso però dietro ci sono altri motivi. E fra questi ci sono due situazioni. La prima è che un potenziale candidato, prima di lanciarsi, vuole tastare il terreno e sentire se ha un sostegno sufficiente sia all'interno del suo gruppo che negli altri partiti». In altre parole, «chi me lo fa fare di affrontare una battaglia interna per poi, magari, neanche finire sul ticket?». Una motivazione, sottolinea il politologo, che sembra possa incorniciare la rinuncia del presidente uscente, Gerhard Pfister, «molto apprezzato nell'opinione pubblica e in parlamento, ma che nel suo gruppo sembra essersi creato negli anni alcuni avversari».
La seconda motivazione invece potrebbe essere legata al Dipartimento di cui Viola Amherd lascerà la guida. «Al 99% la persona che sarà eletta erediterà il Dipartimento della Difesa. Storicamente, un dipartimento fra i meno ambiti in Consiglio federale. E sapere che si eredita un dipartimento già di suo poco ambito, colpito in tempi recenti da tutta una serie di problemi - da ultimo, il caso dei droni israeliani -, il tutto in un momento molto delicato su scala internazionale, non fa venire la voglia di dire "entro in Consiglio federale e voglio fare il ministro della Difesa"».
Sette, nove o più...
Ma c'è anche chi sostiene che, forse, il lavoro del consigliere federale è diventato troppo gravoso. E sul tavolo è così tornata la proposta di una riforma che aumenti il numero di "saggi" sotto il Cupolone, "diluendo" così il lavoro dei vari dipartimenti su più teste. Ma è davvero una possibile soluzione?
«È una discussione che si ripropone ogni tot anni. Se ne parla da oltre una trentina d'anni di questa riforma. E sì, sicuramente il lavoro del consigliere federale non è facile, devono essere attenti su più fronti. Ma è una questione di organizzazione, di saper delegare e della qualità dei collaboratori di cui si circonda». In breve, «c'è tanto lavoro da fare, ma è fattibile». D'altronde, osserva Sojanovic, «non abbiamo avuto casi di consiglieri federali andati in burnout». Inoltre, aumentando il numero di consiglieri federali «ognuno di questi avrebbe sì sotto di sé meno uffici federali e teoricamente meno responsabilità. Ma non necessariamente meno lavoro».
E gli elettori?
La non corsa a candidarsi per il "dopo Amherd" ha poi, almeno, un altro punto di vista che va per forza di cose considerato: quello di chi ha votato per il Centro. Il presidente uscente Pfister ha meriti innegabili nell'aver rilanciato il partito a livello nazionale. Ma ora, vedere i propri deputati più prestigiosi sfilarsi, uno dopo l'altro, dalla corsa non deve essere stato particolarmente edificante. «Sicuramente l'immagine del partito ne soffre, non c'è dubbio. Non è una bella figura. E penso che per lo stesso Pfister - che è riuscito a unire l'allora PPD con il Partito borghese democratico, e per la prima volta nella storia a frenare l'emorragia di voti che durava dagli anni '70 - terminare la presidenza con questo caos, non è una bella chiusura» dell'esperienza alla guida del partito.
Un caos che, secondo il politologo, si spiega anche in quella, assai probabile, mancanza di coordinamento tra le sue dimissioni e quelle di Viola Amherd, che verosimilmente lo hanno preso alla sprovvista. «Non possiamo sapere cosa si siano detti». Sono parole che quasi sempre restano confinate nelle stanze in cui vengono pronunciate. Anche se nei rapporti tra i due qualcosa, ultimamente, sembra si fosse incrinato. «Soprattutto quando Viola Amherd non ha accettato di cambiare dipartimento», tanto dopo le dimissioni di Alain Berset che, ancor prima, in occasione dell'entrata in governo di Albert Rösti ed Élisabeth Baume-Schneider.
«Con la partenza di Simonetta Sommaruga si liberava il Dipartimento dell'ambiente e dei trasporti, che è molto più interessante di quello della Difesa. E la Amherd avrebbe potuto prenderlo. E sembra che questa scelta non fosse molto apprezzata dai vertici del partito. E dal partito in generale. E da quel momento sembra che i rapporti non siano stati propri idilliaci».