Doppia imposizione, dumping, costi vari e tempo libero ridotto all'osso. Dalla testimonianza alla conferma del sindacalista: «Non è facile»
LUGANO - «Trentotto chilometri. Sono quelli che hanno separato, per un anno e mezzo, il cortile di casa a Varese e il parcheggio del posto di lavoro a Lugano Nord. Tragitto trascorso chiuso in macchina, ogni giorno, per almeno 3 ore e 10 minuti. Questo se lungo l'A2 tutto filava liscio. Ma, come ben sanno i tantissimi frontalieri che la percorrono quotidianamente, sull'A2 non va quasi mai tutto liscio. Un piccolo incidente, un micro-cantiere o un innocuo rallentamento fanno lievitare il tempo di percorrenza, e di parecchio. Aggiungiamo 10 ore sul posto di lavoro – contando la pausa pranzo –, ed ecco che si arriva già a ben oltre le 13 ore di una giornata ordinaria. Almeno sette dedichiamole al sonno, eccoci dunque con 4 ore scarse per vivere, solitamente a ridosso della cena e con la palpebra già calante. Potrebbe chiudersi qui la spiegazione del perché, dopo un anno e mezzo di lavoro in Svizzera, ho preso la decisione di cambiare e tornare in Italia. Ma sarebbe riduttivo. Questo perché, particolare non di poco conto, ho una famiglia con due figli ancora piccoli che ho visto poco e con i quali ho trascorso tempo di pessima qualità. Sul tipo di lavoro, come accade sempre, c’erano dei pro e dei contro. Ecco così che questa combinazione di elementi - pur avendo 54 anni e quindi con la pensione neanche lontanamente nel mirino - mi ha convinto a fare retromarcia e pur guadagnando di meno – decisamente di meno – ho preferito creare condizioni lavorative tali da permettermi di organizzare la vita nei modi e nei tempi a me più congeniali. Per il resto niente da dire: ottimo stipendio – che mai in Italia si potrebbe ottenere a parità di mansione - ambiente lavorativo con ogni comfort e posto di lavoro tendenzialmente sicuro».
Luca* è stato uno dei tantissimi pendolari frontalieri che quotidianamente “obliterano” il passaggio in dogana due volte al giorno per cinque volte alla settimana. Fino a poche settimane fa faceva ancora parte di quei 78’683 rilevati nel quarto trimestre del 2024. Un numero significativo, ma che faceva registrare un calo dell’1,1% in dodici mesi. Alla fine, anche lui ha deciso di fare il passo e contribuire così alla flessione di una categoria che mostra segnali di sofferenza.
Per sviscerare le difficoltà di questa fetta di lavoratori, percepiti a volte con diffidenza, abbiamo chiesto l’aiuto di Matteo Mandressi che, per la Cgil di Como, da tempo si batte per i diritti dei lavoratori frontalieri.
«La condizione del frontaliere è certamente particolare. Parliamo di una persona che prima di tutto si trova ad affrontare un problema di comprensione e di adattamento. La lingua, certo, è la stessa, ma le differenze culturali sono importanti».
Posto questo, diciamo che l’uomo è capace di adattarsi a qualunque contesto e il Ticino non è certo una terra ostile.
«Certamente. Da prendere in considerazione, oggi, c'è anche il nuovo accordo sull'imposizione dei lavoratori frontalieri. Si tratta di capire l'impatto fiscale che si deve affrontare e se sia ancora conveniente, da un punto di vista prettamente economico, lavorare in Svizzera. La doppia imposizione ha un peso variabile sulla busta paga, ma comunque rilevante se si pensa che - rispetto a un vecchio frontaliere - un cameriere formato può veder calare la propria busta paga di 8mila franchi l'anno, che diventano 20mila per uno specialista del settore finanziario».
Di fronte a questo cambiamento qual è la risposta?
«Solitamente positiva, ma determinata dal fatto che l'Italia è un paese con salari bassissimi. Al di qua del confine c'è un'emergenza salariale tale per cui un'offerta di lavoro in Canton Ticino, anche se a livelli da salario minimo, resta allettante per un italiano. Ma solo perché abbiamo stipendi bloccati da anni e un potere salariale che nell'ultimo ventennio è sempre calato rispetto al costo della vita».
Di che differenza parliamo?
«Se in Ticino il salario minimo supera, seppur di poco, i 20 franchi l'ora, in Italia il punto di partenza è 9 euro l'ora. Meno della metà. Nonostante si parli di due economie confinanti che hanno molte interrelazioni».
Insomma, in Svizzera alla fine ci si arricchisce…
«Non direi. Tranne alcune condizioni privilegiate, la maggior parte della manodopera frontaliera tende verso salari bassi. Quindi il frontaliere medio è un lavoratore che rispetto al paese d'origine ha certamente uno stipendio migliore, ma non tale da permettergli di arricchirsi. Anche perché ci sono tutta una serie di costi da valutare».
L’ormai nota questione del dumping…
«Quando si ha di fronte un lavoratore frontaliere, l'offerta tende ad essere più bassa proprio per la consapevolezza della condizione già citata. Questa consapevolezza comporta un dumping salariale che indiscutibilmente danneggia l'economia ticinese. Il fatto che, spesso, il frontaliere venga visto come un "nemico" da parte del lavoratore ticinese è comprensibile proprio per questa dinamica. Anche se la colpa non è certo del lavoratore che, per condizione indiretta, tende a spingere i salari verso il basso. Il paragone può apparire un po' forzato, ma è la stessa cosa che accade in Italia con i lavoratori migranti».
Diceva che ci sono altri costi da valutare.
«Si pensi solo allo spostamento per raggiungere il luogo di lavoro, tra benzina e usura dell’auto. Ma anche ai costi in termini di tempo, di vita. Negli ultimi anni, l'incremento del numero di frontalieri ha comportato, a fronte di politiche magari non ottimali rispetto al trasporto pubblico, un intasamento di quell'unica arteria che convoglia i lavoratori che provengono da Varese, Como, e da fuori fascia. Ecco che raggiungere il posto di lavoro a Lugano, per fare un esempio, diventa un'avventura. A una giornata lavorativa di 8 ore più la pausa pranzo vanno aggiunte anche un paio d'ore di viaggio all'andata e lo stesso al ritorno. Significa quindi alzarsi molto presto e tornare a casa tardi la sera. Se tramutiamo in valore economico quelle ore, vediamo che quei 20 franchi l'ora non sono più 20. Se poi ci aggiungiamo l’impatto fiscale del nuovo accordo…».
Ecco che qualcuno sceglie di fare dietrofront.
«Non va dimenticato il senso costante di precarietà dovuto al fatto che, qualora dovesse perdere il lavoro, il frontaliere non riceverebbe l'indennità di disoccupazione come un lavoratore indigeno. Chi vive in Italia ha infatti diritto solo alla “NASPI”, che è erogata dall'INPS. In realtà, nell'accordo fiscale Italia-Svizzera sarebbe prevista per i primi mesi di disoccupazione una retribuzione “svizzera”. Questo accordo, ad oggi, è totalmente inapplicato. Il frontaliere che viene licenziato, dunque, si trova a percepire un terzo, se va bene, di quello prendeva. Quindi a dover rivedere complessivamente le proprie condizioni di vita. Non voglio certo delineare una situazione drammatica, però è giusto rimetterla sui binari di una realtà veritiera fatta anche di difficoltà particolari che spesso non vengono considerate».
E i licenziamenti, di recente, non mancano.
«Quando un aspirante frontaliere viene da noi per avere dei consigli e capire come funziona il lavoro in Svizzera, parliamo anche dell'incertezza rispetto alla continuità lavorativa. In Svizzera, la disdetta del contratto è libera e nei confronti di un lavoratore frontaliero anche più semplice. In ultimo, oggi stiamo assistendo a una serie di crisi aziendali in Ticino, con annunci di tagli drastici a intervalli regolari. Questo è uno dei motivi per cui, quando il lavoratore deve accendere un mutuo in Italia, spesso incontra delle difficoltà nel far capire alla banca che la retribuzione è garantita. Stesso problema con l'acquisto di un'auto, e così via. Insomma, quella persona “privilegiata”, che “porta via il lavoro”, è tutte queste cose messe assieme. E spesso colma delle lacune. Ricordiamo che alcuni settori, uno fra tutti quello della sanità, senza il lavoratore italiano avrebbero grossi problemi nel continuare a garantire i loro servizi».
*nome fittizio.