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CANTONEGhezzi: «Guardo poche serie tv, è un cinema che molte volte delude»

15.08.19 - 08:00
A Locarno72 abbiamo incontrato Enrico Ghezzi, critico cinematografico e scrittore, nonché padre di “Blob” e di “Fuori orario. Cose (mai) viste”, da tre decenni in onda su RaiTre
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Enrico Ghezzi, classe 1952.
Enrico Ghezzi, classe 1952.
Ghezzi: «Guardo poche serie tv, è un cinema che molte volte delude»
A Locarno72 abbiamo incontrato Enrico Ghezzi, critico cinematografico e scrittore, nonché padre di “Blob” e di “Fuori orario. Cose (mai) viste”, da tre decenni in onda su RaiTre

LOCARNO - Ghezzi, ieri in tarda mattinata sul lungolago, parlando con la stampa ticinese, ha detto la sua. Come sempre, senza filtri, nonostante il Parkinson che lo affligge da anni.

Enrico Ghezzi, quanti film ha visto quest'anno qui a Locarno?

«Sono stato solo alla retrospettiva (“Black Light”, un'inedita panoramica del cinema nero del 20esimo secolo)».

Che ne pensa?

«Mi piace».

Chi salva nel cinema italiano di oggi?

«Bisogna sempre salvare qualcuno? C'è già un’eccedenza».

Possiamo definirla uno studioso e teorico del frammento? Lei, per di più, ha giocato in anticipo, visto che il frammento è l’essenza dei nuovi media... 

«Qualunque tipo di immagine è il gioco di frammentisti. E oggi il cinema è pronto per diventare un'altra cosa, senza fine, reggendosi sulla propria fragilità per trasformarsi nell'immagine pura del desiderio. Il cinema ha già vinto: lo dicono tutti. Già agli inizi del Novecento».

Ora come ora, per cui, con le nuove tecnologie ha raggiunto il suo apice?

«Il cinema non è in gara».

In quale modo può relazionarsi la settima arte con le nuove piattaforme?

«Sono molto favorevole a quel che si raggiungerà in senso negativo: ovvero, qualcosa di non più tanto controllabile. Anche se il 90% delle immagini che si vedono sono già viste. E per di più ritoccate, accarezzate oppure malmenate...».

Che rapporto ha con le serie tv?

«Ho molta difficoltà a parlare di questo: un rapporto che, come minimo, dovrebbe suscitare e permettere di tutto, prendendo direttamente da sé quel che si crede di volere. Si torna, in ogni caso, al discorso delle eccedenze».

Ma lei le guarda?

«Pochissimo. È un cinema che molte volte delude. Come il finale di “Lost”, per il quale mi resi conto di un venir meno rapidissimo. La grandezza di alcune serie e il fatto stesso che resistano è una delle delusioni più forti che io abbia potuto conoscere, in particolare quando mi accorsi che un film di quindici ore si confrontava con due frammenti di un minuto».

Perché quella sua e di Guglielmi è ritenuta l’età dell’oro della televisione?

«Perché lo era». 

Vuole approfondire?

«Si proponeva come un’entità semplicissima, che possiamo anche chiamare coraggio o incoscienza…».

Quanto è cambiato il mestiere di critico cinematografico negli ultimi 40-50 anni?

«Si tratta di un tema molto dibattuto. Io ho fatto cose come se non esistesse il potere, come se non esistesse il commercio: il cinema, in realtà, è solo quando lo riconosciamo come non cinema. Per dire, mi stupisco del lavoro svolto da me e Guglielmi, perché abbiamo davvero messo a punto progetti inauditi: e questo vuol dire essere pronti a scavalcare il potere con una piroetta, con un salto triplo». 

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