Ogni massacro chiama vendetta


Il reporter di guerra italo-svizzero Luca Steinmann sarà presente oggi a La Filanda di Mendrisio per presentare "Vite al fronte".
Il reporter di guerra italo-svizzero Luca Steinmann sarà presente oggi a La Filanda di Mendrisio per presentare "Vite al fronte".
MENDRISIO - Ogni massacro chiama vendetta. Ogni guerra ne genera un'altra. Ogni conflitto lascia ferite che neppure il tempo può rimarginare. Da qualunque angolo la si osservi, la Terza Guerra Mondiale a pezzi emerge con chiarezza nel libro del reporter italo-svizzero Luca Steinmann, "Vite al fronte".
Come componenti di un puzzle i quarantuno capitoli si fondono in un'unica narrazione. Uno scenario visibile solo facendo un passo indietro, adottando una prospettiva diversa e uno sguardo più ampio.
Già perché chi si illude che la storia sia finita, dovrà presto fare i conti con la realtà. Steinmann (presente oggi giovedì 10 aprile presso la Filanda di Mendrisio alle 20.30) ci riconsegna i traumi e le cicatrici che le guerre generano sulla pelle delle popolazioni civili, dagli occhi di chi le ha vissute e subite in prima persona.
L'interconnessione delle guerre è il fil rouge del libro, come e quando hai percepito i legami che uniscono i diversi campi di battaglia di cui sei stato testimone?
«È stato un percorso di anni nel quale, frequentando i territori in guerra, queste interconnessioni mi sono sembrate sempre più evidenti. Innanzitutto l’ho percepito attraverso le tante storie che ho raccolto. È stato il punto di partenza. Poi ho iniziato a ritrovare, in contesti bellici diversi, le stesse persone che cercavano di fuggire alla violenza. Queste interconnessioni dal basso, delle persone che vivono le guerre, si riflettono però con quelle più alte (la dimensione geopolitica e diplomatica). Trovo sia importante dare un volto umano a queste interconnessioni».
Cosa significa che le guerre si alimentano?
«Si alimentano attraverso la memoria. Una guerra, una strage, una deportazione oppure un massacro, lasciano nelle memorie delle persone che le subiscono delle cicatrici profonde. E spesso plasmano l’identità personale, ma anche familiare delle generazioni successive. Penso per esempio alla profondità del ricordo dell'olocausto per le famiglie ebraiche, oppure al peso della Nakba per i palestinesi, al genocidio degli armeni, la guerra civile in Siria. La memoria, che crea delle identità forti ma anche sentimenti di rivincita e di giustizia, può quindi alimentare la guerra e la violenza».
Non sempre, però, la memoria è condivisa.
«Il problema è che la memoria molto spesso non è condivisa. Russi, ucraini, cittadini del Donbass, avranno tutti delle memorie tragiche di questa guerra. Sarà possibile identificare un comune denominatore? Per ottenere una memoria collettiva è necessaria una parte che accetti la sconfitta. Condizione che non si riscontra mai».
Apri il primo capitolo sferrando pugni alle pareti di un ufficio di una stazione della polizia russa nel Donetsk. Eri appena stato condannato a un divieto di ingresso in Russia per cinque anni. Cosa hai provato?
«È stata un’arrabbiatura momentanea. Ho sempre cercato di non prendere in giro nessuno durante i miei reportage. E ho sempre difeso l’indipendenza del mio lavoro oltre alla mia onestà intellettuale. Il fatto che questo mi venisse privato era fonte di una grande frustrazione. Al di là dell’arrabbiatura però sono imprevisti che possono capitare nel lavorare in contesti così polarizzanti. In questa guerra ho perso due colleghi (con i quali nei mesi passati al fronte abbiamo sviluppato una profonda amicizia), a me invece hanno stracciato il visto».
L'Europa è divisa tra chi crede nel riarmo come forma di deterrenza per proteggere la pace e chi invece è convinto che nessuno nella storia si è mai riarmato senza poi fare la guerra. Come affrontare questo dilemma?
«Contrariamente a quanto sosteneva il politologo americano Francis Fukuyama, la storia non è finita. Le guerre sono tornate a essere dei mezzi di risoluzione delle controversie internazionali. Ma non siamo entrati in un mondo più violento. E nel momento in cui le guerre sono uno strumento di confronto a livello internazionale non si può non pensare a un sistema di difesa. La questione secondo me è un’altra: a chi affidiamo le nostre armi? In caso di formazione di un esercito europeo, chi lo gestirebbe? Il problema a livello europeo è la diversa sensibilità dei diversi stati membri. A est il riarmo è percepito come necessario per affrontare una minaccia reale. Invece più a ovest la questione è intesa come prevenzione. Queste due visioni sono conciliabili?».
"Alla fine chi vince sul campo di battaglia si conquista un posto al tavolo delle grandi potenze. Anche chi fino a cinque minuti prima era accusato di genocidio". È la fine del diritto internazionale?
«In qualsiasi processo internazionale sono sempre e solo gli sconfitti che si sono dovuti sedere al banco degli imputati. Il diritto internazionale è rivolto a chi perde oppure a tutti? Se è rivolto solo a chi perde, le guerre diventano sempre di più un fenomeno di risoluzione dei conflitti perché se vinco so che non subirò lo stesso tipo di processo degli sconfitti. Il mio processo è il campo di battaglia. Come occidentali siamo determinati ad accusare i nostri nemici per i crimini reali che hanno commesso, ma non siamo in grado di fare lo stesso per quanto riguarda i nostri amici. L’Occidente e l’Europa pagano un gravissimo danno di credibilità».