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A lezione di drag queen: "Ecco come diventare donna"

A Locarno un laboratorio teatrale insegna agli uomini a fare le donne. Gianluca Di Lauro, insegnante e drag queen, prova a spiegare chi e perché lo frequenta
Foto LisaConti@PalestraDigitale
A lezione di drag queen: "Ecco come diventare donna"
A Locarno un laboratorio teatrale insegna agli uomini a fare le donne. Gianluca Di Lauro, insegnante e drag queen, prova a spiegare chi e perché lo frequenta
LOCARNO - Scordate transessuali e travestiti: essere drag queen significa, semplicemente, vestire panni tipici dell’altro sesso a scopo artistico. Un’esperienza meno ovvia e semplice delle parole che si usano per raccontarla: c&rsquo...

LOCARNO - Scordate transessuali e travestiti: essere drag queen significa, semplicemente, vestire panni tipici dell’altro sesso a scopo artistico. Un’esperienza meno ovvia e semplice delle parole che si usano per raccontarla: c’è chi è disposto a frequentare addirittura un corso pur di sentirsi vera drag. Che non vuol dire imparare a essere “diversi” senza vergognarsi, né prendersi gioco di chi ha una natura che nasconde oppure ostenta, ma liberarsi delle ipocrisie e le costrizioni. Questo sabato e domenica, dalle 10 alle 18 al Cambusateatro di Locarno, si terrà il primo laboratorio ad hoc rivolto ad aspiranti drag queen, all’indomani dello spettacolo delle Nina’s Drag Queens di questa sera, al teatro del Gatto di Ascona, “Il giardino delle ciliegie”.

 

Duecento franchi per studiare un modo di proporsi che si costruisce sopra una contraddizione: Gianluca di Lauro, Desirée nella finzione, attore anche per la televisione e il cinema con “Vallanzasca” o “Il capitale umano” di Virzì, sul punto è chiaro. Usa il femminile, come si conviene nel rispetto delle regole grammaticali della concordanza, quando dice che le drag queen non sono dei pagliacci. Sono artisti che non hanno niente da invidiare agli altri: e, al di là di qualche cantonata, è sempre maggiore l’interesse intorno ai corsi proposti, in versione full immersion o a cadenza settimanale. Almeno uno all’anno al teatro Ringhiera di Milano, a volte due o tre, classi fino a venti allievi. «Un attività in crescita».

 

Di Lauro, dove nasce il desiderio di diventare drag queen?

“Nasce da diverse esigenze. Vengono persone di ogni genere. C’è chi ha già a che fare con il mondo teatrale e vuole diversificare le proprie competenze. Altri arrivano spinti da curiosità verso il mondo del travestitismo, il loro scopo è cercare un ego. Ci sono anche le donne. All’inizio eravamo stupiti, poi abbiamo capito che è normale. Portano un modello femminile lontano dalla quotidianità e salgono sul palco perché lì riescono a guardare se stesse con distacco. L’obiettivo è comune a tutti: dissacrare”.

 

Mai nessuno che equivoca?

“A volte qualcuno non ha ben chiaro che si tratta di teatro. Ma capisce dopo neanche troppo tempo. Per noi gli aspetti che più accendono la fantasia delle persone, come truccarsi o camminare sui tacchi, non sono prioritari. Ci sono, giustamente, ma vengono dopo”.

 

Che cosa si impara in due giorni?

“Proponiamo esercizi che fanno parte di una propedeutica teatrale. Si lavora sulla postura, la camminata, il trucco, sia sull’immaginario che circonda il personaggio, la sua storia”.

 

Si viene per divertirsi o per cominciare un percorso?

“Si viene per avere un assaggio del nostro stile, per conoscerne i tratti salienti, gli approcci, le tecniche. Poi c’è chi torna per perfezionarsi. Ma non ne facciamo un business. Sarebbe facile organizzare corsi in più livelli, ma preferiamo essere liberi”.

 

Un modo per conoscere il dietro le quinte?

“Di più. Perché sono gli allievi a essere protagonisti. Non si guarda: si fa. Lavoriamo con loro, su di loro. Spesso è prevista una performance finale”.

 

A proposito di spettacolo, per voi quella di Ascona è la «prima trasferta internazionale»: eppure le Nina’s drag queens esistono da sette anni. Perché soltanto ora?

“Il nostro è stato un percorso lento. Le Nina’s sono nate per desiderio dell’attore Fabio Chiesa in occasione di un festival al teatro Ringhiera, con l’ottica di una performance estemporanea. Non eravamo ancora coscienti del nostro potenziale. La consapevolezza è arrivata con il tempo, in particolare con Il giardino delle ciliegie: dal genere più disimpegnato, di rivista, siamo passati a un testo classico. Con questa esperienza abbiamo capito che il tipo di teatro che ci eravamo inventati aveva senso come ricerca”.

 

Vi ha frenato il pregiudizio?

“Tutte le volte che andiamo in scena, il pubblico ci accoglie con favore. È vero che dove non siamo conosciuti c’è una diffidenza iniziale, ma ne usciamo sempre bene, con nuovi fan. Forse la resistenza viene più dagli operatori. È faticoso far passare il messaggio che si tratta di teatro e non di una parata di travestiti. Siamo attori, danzatori, registi, drammaturghi, professionisti. Travestirsi è uno stile, e quello che facciamo è un tipo di teatro. Ma a volte si ragiona per stereotipi e ci sentiamo rispondere che «Il nostro pubblico non è ancora pronto»”.

 

Qual è il vostro pubblico?

“È un gruppo eterogeneo, con interessi differenti, maturato con il tempo. Fascia d’età media, fra i 20 e i 40 anni, ma anche anziani. Uomini e donne. Parliamo a tutti”.

 

Che cosa piace della drag queen?

“La drag queen ha fascino perché esprime qualcosa di inusuale, in bilico. Un corpo mascolino, nodoso, forte nei lineamenti, che interpreta qualcosa di lontano da sé. Questo disequilibrio è di per sé seducente. E non dimentichiamo che siamo delle maschere. Siamo come dei clown, irriverenti, ironici”.

 

Il compito del clown è sovvertire l’ordine precostituito delle cose. Il vostro?

“Sicuramente è anche il nostro. Non ci fermiamo davanti a nulla. In quanto clown ci è consentito di essere dissacranti, di sovvertire gli stereotipi”.

 

Vi sentite i clown del Terzo Millennio?

“È una visione plausibile. Non dimentichiamo però che l’uomo travestito è una figura molto più antica. Una volta sul palco andavano solo gli uomini, pronti a interpretare personaggi femminili. Oggi è una scelta stilistica, contemporanea. Noi crediamo in questa funzione clownesca. Poi esiste la drag queen che non frequenta il mondo teatrale, che preferisce i locali, il cabaret e che con quello che facciamo noi ha poco a che fare. O magari ha addirittura una visione antitetica”.

 

Portate in scena Cechov mentre sono in corso le Olimpiadi e l’attenzione è concentrata sulla Russia omofoba: una provocazione?

“Una coincidenza. Lo spettacolo esiste da due anni”.

 

In quale modo l’originale diventa un testo per drag queen?

“Restituendogli qualcosa che ha sempre avuto, ma è stato messo da parte. In questo caso, nell’abitudine novecentesca di cercare in Cechov la tragedia, non è stata mai portata in scena la parte ironica, grottesca del testo. Noi lo facciamo, bilanciando la tragedia con la commedia. Mentre studiavamo il testo, siamo rimasti sorpresi nello scoprire quanto i personaggi avessero delle essenze drag: colorite, espressioniste”.

 

Più che revisori, dunque, vi sentite interpreti?

“Alla fine un po’ è così. Ma è anche vero che operiamo delle scelte drammaturgiche importanti, dei tagli notevoli. Per esempio, abbiamo abolito i personaggi maschili in scena. Penso sia la prima volta che accade”.

 

Com’è una drag queen giù dal palco?

“Io giù dal palco ci sto il meno possibile. Sono attore, ho altri progetti al di là delle Nina’s».

 

Lei ha fatto anche cinema. È il cinema che ruba tempo alle Nina’s o viceversa?

“Il cinema è benvenuto, non è assolutamente in contrasto o in competizione. Spero di continuare, il teatro troverà comunque il suo spazio”.

 

Si è mai sentito discriminato dai colleghi, come drag queen?

“Qualcuno all’inizio la considera roba da travestiti, poco seria. Finché non vede lo spettacolo. A quel punto il pregiudizio cade e si può ragionare sulla bravura, al pari di quella riconosciuta alle compagnie che recitano in maniera più tradizionale”.

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