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«Sono ragazzi fragili. E non chiamatelo "branco"»

Dubbi e timori si moltiplicano dopo il brutale pestaggio verificatosi sabato sera a Lugano.
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«Sono ragazzi fragili. E non chiamatelo "branco"»
Dubbi e timori si moltiplicano dopo il brutale pestaggio verificatosi sabato sera a Lugano.
«Per molti minori il carcere non è la soluzione», ci dice Fabiola Gnesa, magistrata dei minorenni.

LUGANO - È stato picchiato a sangue da cinque ragazzi, quattro dei quali sarebbero minorenni, il 19enne soccorso sabato sera in centro a Lugano. E il gruppo, secondo la vittima, avrebbe ricorso alla violenza senza alcun motivo. Ma cosa c’è dietro queste brutali aggressioni? E cosa si può fare per scongiurarle? Ne abbiamo parlato con la magistrata dei minorenni Fabiola Gnesa. 

Uno sguardo può bastare - «Sul caso specifico non mi posso esprimere, perché l’inchiesta è appena stata aperta ed è in corso. Le aggressioni immotivate sono però una modalità di agire che effettivamente esiste, anche se è rara. La maggior parte degli autori cercano di motivare il loro operato dichiarando di essere stati provocati, ma ciò può essere vero come non vero, perciò svolgiamo i dovuti accertamenti. Va detto, comunque, che un semplice “mi ha guardato male” agli occhi di alcuni minori rappresenta una valida motivazione». 

«In Ticino nessun branco» - Stando a Gnesa non si può poi parlare di “branchi” o “bande”. «I ragazzi girano in gruppo, quindi quando accadono questi episodi gli autori vengono identificati in questo modo. Qui in Ticino però non esistono dei veri e propri branchi o delle gang. «Le bande sono organizzate, funzionano secondo dei principi e hanno un organigramma. I gruppi coinvolti in questi reati, nel nostro cantone, non rientrano in questa categoria: sono composti da amici che girano negli stessi luoghi, minori che si riuniscono a geometrie variabili». 

«Non sanno esprimere le loro emozioni» - Questi giovanissimi, ad ogni modo, non esitano ad arrivare alle mani. «Sono ragazzi estremamente fragili, che non sanno esprimere le loro emozioni e manifestano il loro disagio così, in modo aggressivo e violento. Subiscono inoltre l’influenza dei social media, dove tutto è basato sull’avere e sul potere e la violenza è ricorrente e normalizzata. E questo è quel che apprendono i minori, soprattutto coloro che non hanno un seguito e delle persone di riferimento stabili e coerenti». 

Pene troppo lievi? «Non sono una cosa da nulla» - Ma la consapevolezza che, in caso di condanna, le pene saranno di lieve entità non spinge i minori a essere più spregiudicati? «Non credo proprio», replica la magistrata. «Per un ragazzo di 14 anni essere seguito da un operatore sociale o addirittura collocato in una struttura educativa non è una cosa da nulla: è dura avere degli operatori sociali che ti seguono costantemente e verificano i tuoi progressi. Inoltre le misure protettive ambulatoriali o stazionarie, in particolari i collocamenti negli istituti (siano essi aperti o chiusi), possono prolungarsi per molto tempo ed essere estesi fino al raggiungimento dell’età di 25 anni del giovane». Al contrario, le pene carcerarie hanno una durata ben definita. 

«L’opinione pubblica dice “bisogna mandarli in carcere!”, ma per noi è l’ultima ratio», prosegue Gnesa. Il diritto penale minorile ha infatti tre diversi scopi: c’è la punizione, ma anche l’educazione e la protezione. «Il nostro compito è fare in modo che questi ragazzi non diventino recidivi e che possano divenire autonomi e avere un futuro senza dover pesare, anche finanziariamente, sulla società». 

E qualcuno preferisce il carcere - «Diversi minori, peraltro, trovano più sopportabile il carcere dei centri educativi», insiste la magistrata. «Questo perché nelle strutture vengono coinvolti in diverse attività e devono fare un grande lavoro su sé stessi, mentre in carcere trascorrono molte ore senza impegni». Ed emerge un esempio emblematico: «In accordo con un’autorità civile abbiamo mandato un ragazzo a San Patrignano: ha resistito soltanto un mese, dopo diversi mesi passati in carcere. Preferiva stare in detenzione, perché in carcere vi è una deresponsabilizzazione e si sentiva più sicuro». Il carcere, insomma, «nella maggior parte dei casi non è la soluzione e, soprattutto per i minorenni, va bene solo fino a un certo punto». 

Volgendo lo sguardo al futuro, però, l’ottimismo non fa da padrone. «È un momento molto difficile per tutti, sia minorenni che maggiorenni», sospira Gnesa. «Ad ogni modo non farei questo lavoro se non avessi speranza nei giovani. Va detto, poi, che i ragazzi che arrivano da me rappresentano una minoranza rispetto a quelli che non delinquono».

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