Franco Lurà critica la proposta di insegnare la parlata a scuola e Paolo Ostinelli, direttore del Centro di dialettologia dice: «Ci sono altri modi di integrarlo nei programmi come fenomeno culturale»
BELLINZONA - Bocciata la madre di tutte le riforme, è subito partita quella che ha l’aspetto di una piccola contro-riforma. Dalla stessa area politica che ha affossato la “Scuola che verrà”, più qualche innesto, arriva infatti la proposta di introdurre l’insegnamento del dialetto a scuola. Facoltativo, ma in tutte le sedi elementari e medie del cantone.
Non è il Rumantsch - Un’idea che Paolo Ostinelli, direttore del Centro di dialettologia ed etnografica di Bellinzona giudica non priva di aspetti critici: «Il dialetto come materia d’insegnamento si scontra con delle difficoltà oggettive. Manca una tradizione come lingua scritta, non c’è un modello normativo a cui riferirsi come, ad esempio, il “Rumantsch Grischun”... Anche se non credo sia quello lo scopo dell’iniziativa… Tra l’insegnare il dialetto, come una lingua che si apprende con una grammatica e un vocabolario, e integrare il dialetto nei programmi di studio ci sono diverse possibilità. Il dialetto come fenomeno culturale è sicuramente qualcosa di interessante» sottolinea Ostinelli.
Buone intenzioni, ma... - Sulla stessa linea anche il giudizio del suo predecessore, l’ex direttore Franco Lurà, che evidenzia tre nodi principali: «Partirei, innanzitutto, dalla qualità dell’insegnamento e dalla preparazione dei docenti. Non ci si improvvisa dialettologi. E parlare il dialetto non significa saperlo trasmettere. Per trasformare il dialetto in materia occorre un vestito un po’ più solido» esordisce Franco Lurà. «Le intenzioni possono essere buone, ma la proposta mi sembra effimera ed ingenua perché non tiene conto delle difficoltà oggettive».
Tanti parlate locali - Detto della preparazione dei docenti, tutta da costruire, ci sarebbe poi da capire, «che genere di insegnamento si vuole perseguire. Di tipo grammaticale? E mi domando che senso abbia. Oppure di tipo culturale? Infine, credo che la differenziazione sia uno degli aspetti più belli della nostra identità. Perciò sarebbe importante mostrare non l’appiattimento, ma la vividezza delle parlate locali di un tempo. Ci vorrebbe dunque un insegnamento articolato e complesso». Ed è questo il terzo e ultimo nodo: «Per ogni regione andrebbe infatti calibrato un insegnamento diversificato, perché un conto è insegnare il dialetto ad Airolo, un altro a Chiasso. E questo rappresenta un'ulteriore difficoltà oggettiva».
Gli errori del passato - Questi ostacoli fanno dire a Lurà che «non ha senso attuare una proposta del genere istituzionalmente. Molto meglio affidarla a singole iniziative in quelle realtà dove si trovano le condizioni, che vanno dall’humus fertile alle persone qualificate per seminare. Altrimenti si rischia il buco nell’acqua». Lurà arriva ad immaginare un corso facoltativo di cultura dialettale in linea con l’approccio che è quello “enciclopedico” del Vocabolario dei dialetti, ma non altro: «L’errore è stato compiuto negli anni 60-70 quando è stato deciso di abbandonare l’uso del dialetto, perché ritenuto di ostacolo sociale. Affossato dalla scuola stessa cui ora non si può chiedere di correre ai ripari. Un ruolo possono averlo le famiglie, dove un’educazione plurilingue, e non importa quali, aiuterebbe anche ad evitare le situazioni di chiusura e razzismo».
Il deputato Marioli: «Dissero che era un’idea strampalata, ma poi...»
«Certo che parlo il dialetto e parecchio. In famiglia e quando posso sul lavoro. Un dialetto luganese, ma con espressioni tipiche e non troppo “italianizzato”» dice Nicholas Marioli, il neo-deputato leghista che ha inoltrato l’iniziativa per insegnare la parlata locale a scuola.
Tanti dialetti e una materia. Come se l’immagina?
«Immagino una preservazione del dialetto locale e non vedo di buon occhio una sua uniformità. Ogni sede scolastica dovrebbe, nel limite del possibile, insegnare il dialetto della propria regione».
Chi dovrebbe formare gli insegnanti?
«Il grande vantaggio che abbiamo sta nel Centro di dialettologia che ha i mezzi e gli strumenti per formare i docenti. Anziché portare avanti solo il Vocabolario, Il Centro potrebbe ampliare il proprio raggio di azione. Loro dovrebbero preavvisare il materiale didattico, ma anche formare e valutare l’idoneità degli insegnanti».
Concretizzare questa proposta che costi avrebbe?
«Difficile stimarlo ora, perché il costo dipenderebbe anche dagli iscritti. Ma si potrebbero far partire dei progetti pilota».
È fiducioso che verrà accolta l’iniziativa?
«Quando lanciai l’idea nel 2016 in Consiglio comunale a Lugano alcuni la definirono un’idiozia, un’idea strampalata e anacronistica. Ma poi passò a larga maggioranza. Quella volta i firmatari erano solo leghisti, oggi l’iniziativa è interpartitica, mancano solo i socialisti, dunque sono fiducioso. Anche perché la proposta è passata a Lugano dove il dialetto è parlato solo dal 23% della popolazione. Altrove l’interesse sarebbe, credo, maggiore».