"Squid Game" ha tirato troppo la corda


La terza stagione esaspera le caratteristiche peculiari della serie, mostrando come abbia finito per essere danneggiata dal suo stesso successo
SAVOSA - Per parlare della terza stagione di "Squid Game", la serie sudcoreana di Netflix talmente popolare da essere diventata un fenomeno di costume, è bene separare due ambiti: quello concettuale e quello pratico.
Lo sguardo sempre più cupo - Il primo permette di analizzare come si sono mossi i creatori. Nella terza stagione, che arriva solamente sei mesi dopo la seconda, si esasperano quelle che sono le caratteristiche peculiari della serie: la brutalità diventa estrema e si assiste a una regressione a uno stato di ferocia che porta alcuni dei protagonisti a compiere gesti dei quali non li avremmo creduti capaci.
Nella loro visione cupa del mondo, gli showrunner raccontano che il coraggio e l'altruismo non pagano. «Le persone buone non fanno altro che incolpare se stesse, per qualsiasi cosa che vada storta» viene fatto dire a un personaggio. Chi sopravvive a tutti i costi deve poi fare i conti con la propria coscienza. Ma questa è un'eventualità isolata: una spietatezza niente affatto lucida è, come prevedibile, ciò che contraddistingue la maggioranza. È il calcolo del giocatore d'azzardo, che s'illude che non sia sempre il banco a vincere.
Il potere, la democrazia e la morte - La critica della società capitalistica si conferma spietata. La comparsa dei Vip, che assistono ai giochi banchettando, è un richiamo nemmeno troppo mascherato all'enorme potere economico dei tecnocrati contemporanei (e alla loro, reale o presunta, amoralità). Ma lo spettatore si trova a interrogarsi anche sulla democrazia e i suoi effetti. Come, ad esempio, la morte come conseguenza di una decisione presa dalla maggioranza.
«Hodie mihi, cras tibi», ovvero «oggi a me, domani a te»: lo si legge sul muro del dormitorio che ospita i giocatori, ed è possibile notarlo solo una volta che l'enorme locale è svuotato. Una locuzione sulla morte, ma anche una macabra battuta sul destino dei 456 giocatori.
Si è "allungato il brodo" - Fin qui l'analisi "filosofica". Concretamente, invece, cosa ci racconta la terza stagione? La sensazione è che sia il classico caso di un prodotto che è rimasto vittima del suo successo. La spinta economica per dare un seguito alla prima stagione, e poi ancora un terzo capitolo, ha fatto sì che si sia "allungato" il brodo fino all'estremo limite. La visione diventa ben presto faticosa, tra scene eccessive e continui colpi di scena, talvolta ingiustificati. L'intreccio delle trame secondarie indebolisce la linea narrativa e rende faticosa la visione.
Vittima del suo successo - Il prodotto resta di alta qualità ma, come già detto, si è scavato il filone d'oro fino a grattare dalle pareti l'ultima pagliuzza. Se avesse avuto un successo meno clamoroso, probabilmente sarebbe finita alla prima stagione o si sarebbe proceduto in maniera diversa con i sequel. Ma non lo sapremo mai.
Quel finale sconcertante - C'è poi la scena finale, che è stata stra-spoilerata sui media e sui social, a causa della presenza del «più grande attore del mondo», come scrive ad esempio il Guardian. Il quotidiano britannico vede in ciò una delle ragioni per cui l'epilogo è così «desolante». Senza gli ultimi due-tre minuti, potremmo parlare di un finale vagamente ottimistico, di un gesto nobile e di una giustizia che riesce a farsi largo, seppur a fatica. Ma quella scena... Ok, ribalta la percezione e la rende coerente con lo sguardo pessimistico della serie. Ma è impossibile non considerarla una scelta gratuita. O meglio, priva di un secondo fine: fa venire il sospetto che non si sia ancora spremuto tutto il possibile da questa gallina dalle uova d'oro. Anzi, dal calamaro.