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MAFIAÈ morto Messina Denaro. Non i suoi segreti

25.09.23 - 12:00
L'ultimo boss delle stragi, consumato dalla malattia, si è portato tre decenni (e più) di misteri nella tomba. Chi lo ha protetto? E ora?
Keystone / Carabinieri
È morto Messina Denaro. Non i suoi segreti
L'ultimo boss delle stragi, consumato dalla malattia, si è portato tre decenni (e più) di misteri nella tomba. Chi lo ha protetto? E ora?

TRAPANI - Poco più di otto mesi. È stato di breve durata il carcere a vita di Matteo Messina Denaro. Il boss di Cosa nostra è stato stroncato nella notte dal tumore al colon che lo aveva colpito alla fine del 2020. Otto mesi che lo han separato dall'impresa di ricalcare le orme del padre, Francesco Messina Denaro, morto nel novembre 1998 durante la latitanza e fatto ritrovare, pronto per il funerale, nelle campagne di Castelvetrano. Così non è stato. Il padrino trapanese si è invece spento, a 61 anni, in un letto dell'ospedale San Salvatore dell'Aquila, piantonato dalle forze dell'ordine, e con sé ha portato nella tomba un tesoro di segreti.

È indubbio che la sua cattura, il 16 gennaio di quest'anno, così come la sua scomparsa, abbiano permesso di chiudere un cerchio. Di saldare quel conto aperto dalla mafia siciliana con le istituzioni dello Stato italiano all'epoca delle stragi dei primi anni Novanta, prima sull'isola e poi sul continente. Un conto in meno, quindi. Ma solo uno, perché tanti sono ancora quelli in attesa del saldo.

Messina Denaro l'ortodosso
Matteo Messina Denaro è morto da "ortodosso". «Con voi parlo, ma non collaborerò mai», disse poche ore dopo il suo arresto al Procuratore di Palermo Maurizio de Lucia. Poco meno di un mese dopo, era il 13 febbraio, durante un lungo interrogatorio ribadì che non intendeva pentirsi, arrivando anche a negare l'evidenza. Anche l'appartenenza all'organizzazione mafiosa. «Io mi sento uomo d'onore. Non come mafioso». Cosa nostra l'aveva conosciuta «dai giornali». Niente droga. Niente estorsioni. «Ci saranno delle cose a cui non rispondo, e cose a cui rispondo». Perché «su di me è da trent'anni che travisano» e «io le posso rispondere con le mie verità». Parole che fanno da trincea al capomafia, che dice e non dice.

Un irriducibile, come Salvatore Riina e Bernardo Provenzano prima di lui. Matteo Messina Denaro però non è stato l'ultimo "capo dei capi"; e neanche avrebbe potuto esserlo. Ma è stato l'ultimo volto di quell'anomalia corleonese che ha fatto compiere a Cosa nostra il salto, autodistruttivo, tra criminalità organizzata e terrorismo. Perché, come ci aveva ricordato il giornalista Attilio Bolzoni poche ore prima che le manette scattassero all'esterno della clinica La Maddalena di Palermo, «la mafia nella sua natura non ha la strage». Alcuni dei conti aperti ruotano proprio attorno alle stragi firmate nel biennio compreso tra la primavera del 1992 e l'alba del 1994. E lui, rampollo di mafia e prediletto di Riina, ne fu sia esecutore che ideatore.

Lui sapeva...
Lui sapeva perché si decise di uccidere il giudice Giovanni Falcone con l'eclatante attentato di Capaci e non, più semplicemente, a Roma. Lui sapeva il perché dell'accelerazione che avrebbe portato, solo 57 giorni dopo, alla strage di Via D'Amelio. Sapeva perché eliminare Paolo Borsellino era diventata un'urgenza e quindi, indirettamente o meno, cosa il giudice avesse annotato nelle pagine della sua inseparabile agenda rossa - e in tal senso, vale la pena aprire una parentesi e ricordare quanto raccontato dal giornalista Saverio Lodato, a cui il giudice, incontrato su un volo tre settimane prima del 19 luglio 1992 e sollecitato in merito ai fatti di Capaci, disse «abbiate pazienza perché a settembre ne avrete tante da scrivere». L'agenda fu recuperata dopo la strage e poi sparì nel nulla.

Ma si va avanti. Messina Denaro è stato in prima fila nella cabina di regia nel 1993, quando le bombe hanno superato lo stretto di Messina per sfregiare Firenze, Milano e Roma. Ed era tra i pochi che avrebbero potuto diradare le ombre sull'ultimo tassello della sequenza stragista. Forse il più oscuro: il fallito attentato allo Stadio Olimpico di Roma, il 23 gennaio 1994. Quello fermato a causa di un malfunzionamento del telecomando che avrebbe dovuto innescare l'autobomba, travolgendo il presidio dei Carabinieri per la partita tra Roma e Udinese. Cosa nostra non ci riprova. Perché? Quello che sappiamo è che quattro giorni dopo, in un ristorante a Milano, vengono arrestati i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Dopodiché il giunco si piega.

E ora?
Trent'anni sono passati dai quei giorni. E oggi Cosa nostra di certo è molto più debole. Il procuratore de Lucia, da noi intervistato una settimana fa, lo ha confermato. Così come ha confermato che l'organizzazione - e, per forza di cose, anche gli inquirenti - stava già riflettendo «in silenzio» sul dopo Messina Denaro. «Sono due gli interessi dell'organizzazione per il dopo. Il primo è continuare il tentativo di ristrutturare Cosa nostra, che come è noto in questo momento manca del suo vertice. Perché tutti i capi sono stati catturati o sono morti. Ma l'altra questione, che diventa importante, è la successione “nei beni“. Noi sappiamo che lui ha ancora - nonostante i sequestri e le confische che abbiamo fatto - un consistente patrimonio che è intestato a soggetti che non conosciamo. Ma che loro conoscono. Il problema sarà quindi chi riuscirà a impadronirsi delle ricchezze dell'ex latitante nel momento in cui dovesse morire. Il che naturalmente può rendere possibili tanto conflitti quanto nuovi accordi con nuovi soggetti emergenti che possono prenderne il posto».

La Procura di Palermo però non guarda solo all'orizzonte, ma anche nello specchietto retrovisore. Il 16 gennaio scorso è stato un punto di partenza. L'inizio di un percorso, a ritroso, per ricostruire quella rete di protezione che ha consentito a Matteo Messina Denaro di trascorrere quasi tutta la vita da latitante. Quasi tre decenni, in parte nel suo personalissimo feudo. Certo, una parte di quella rete è già nota; un cerchio magico, sfoltito negli anni da centinaia di arresti, composto dai parenti più stretti, da familiari di secondo e terzo grado e da favoreggiatori locali. «Se voi dovete arrestare tutte le persone che hanno avuto a che fare con me a Campobello, penso che dovete arrestare da due a tremila persone». Sono parole sue.

Poi c'è l'altra metà, quella che lo ha protetto dall'alto. Di quella parte della rete si sa ancora poco o nulla. Sono i nomi che, forse, potrebbero far capire quale fosse veramente il peso che Matteo Messina Denaro aveva oggi, nella sua Trapani così come dentro Cosa nostra. E anche come ha fatto a non farsi prendere per (quasi) tre decenni.

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