«Non volevo fare questa vita. In Ticino ritrovo la libertà, per questo ci torno»

I "pezzi" di una vita, difficili da riconquistare, i romanzi scritti «in cattività» e la speranza verso un "domani" a lungo atteso. Una "chiacchierata" con Roberto Saviano.
Lo scrittore italiano presenterà "L'amore mio non muore", il suo ultimo romanzo, il prossimo 11 dicembre nell'Aula Polivalente della SUPSI a Manno.
In Ticino, Roberto Saviano fa ritorno volentieri. Qua, in quello che è anche uno spicchio di "italianità" fuori dall'Italia, respira e ritrova una certa pace. «Ecco perché torno da voi», ci confida. Lo scrittore italiano presenterà il suo ultimo romanzo, "L'amore mio non muore", il prossimo 11 dicembre nell'Aula polivalente della SUPSI a Manno. Lo abbiamo intervistato. Sul suo presente, sul rapporto con i protagonisti delle sue opere e su quello che desidera quando pensa a quel domani a lungo atteso.
«Dovrei sparire e basta». «Ho la sensazione di aver sbagliato tutto». «Non ne è valsa la pena». Se ti fosse data la possibilità di parlare con il te stesso ragazzo, prima ancora di Gomorra, e di avvisarlo, raccontandogli di questi venti anni, pensi che riusciresti a convincerlo a fare le cose (o a rifarle) diversamente?
«Sì, riuscirei a convincerlo, ne sono certo perché quello che mi è successo non potevo immaginarlo, ma è lontano anni luce da quel che avrei voluto vivere. Avevo poco più di vent’anni quando ho iniziato a lavorare a quello che poi sarebbe diventato il mio primo libro, Gomorra, ero molto giovane e a quell’età sei pieno di sogni e di desideri. All’epoca credevo di sapere ciò che volevo, ma non avevo idea che sarebbe stato per me più utile sapere cosa non volevo. E non volevo finire sotto scorta, non volevo vivere una vita da recluso, non volevo dovermi difendere dalla criminalità e da chi strumentalizza il mio percorso per propaganda politica. Vivo così da vent’anni, se incontrassi il me stesso di vent’anni fa saprei essere convincente. Ne sono certo».
Mesi fa, dopo la condanna a Francesco Bidognetti (e al suo avvocato), auspicavi di poter finalmente riconquistare qualche “pezzo” della tua vita. Ci stai riuscendo?
«Voglio essere sincero, no. Non ci sto riuscendo perché è troppo difficile. Riconquistare pezzi di vita, significherebbe andare lontano, dove nessuno mi conosce e sperando che il paese straniero che mi ospita sia disposto a farlo senza darmi la scorta. Ma poi ragiono e penso: quanto lontano devo andare perché questo sia possibile? E con la vita devastata che ho, come faccio ad allontanarmi? Oggi vivo tutto questo come una violenza subita, un tempo invece allontanarmi mi sembrava darla vinta, mi sembrava come se mi stessi arrendendo di fronte a una missione che mi ero voluto caricare sulle spalle. Oggi non vedo più nessuna missione. Le mafie sono scomparse dalle agende politiche nonostante continuino a mietere vittime (quasi sempre giovanissime) e nonostante siano l’economia più florida che esista, a qualunque latitudine».
Dato che quella di sparire non è un’opzione, perché dici di considerarla una resa, cosa dovrebbe accadere, un domani, per restituire a Roberto Saviano la sua vita?
«Il giudice Giovanni Falcone disse una volta una frase che avrete sentito o letto sicuramente, è una frase che mi dà speranza: la mafia è un fenomeno umano e come ogni fenomeno umano ha un inizio e avrà una fine».
E c’è mai stato un momento che ti ha invece illuso in questo senso, facendoti pensare: “Ecco, forse ci siamo”?
«Proprio questa estate, la condanna di Francesco Bidognetti e del suo avvocato hanno acceso una luce, una speranza. O forse sono stato io a caricare quel momento, a crederlo un punto di svolta. Capita, quando un processo dura da così tanti anni, si finisce per attribuire alla sua fine un effetto taumaturgico che ovviamente non ha».
Quanto c’è della vita blindata che hai vissuto nel modo in cui hai riportato in vita i protagonisti dei tuoi romanzi? Penso in particolare a “L’amore mio non muore” e, forse ancora di più, a “Solo è il coraggio”...
«Sono libri scritti in cattività. Dentro c’è tutta la mia sofferenza, ma anche la voglia di trovare, attraverso la parola scritta e prima ancora attraverso la raccolta del materiale e delle informazioni necessari alla scrittura, una via di fuga. I protagonisti dei miei libri è come se mi avessero restituito lacerti di libertà, non di spensieratezza perché sono storie che affollano la mente di interrogativi e di riflessioni, ma vivere attraverso loro mi ha in qualche modo reso libero».
Tu hai sempre raccontato le mafie. Sempre di più vediamo però le mafie stesse, nonostante il vincolo dell’omertà, raccontarsi. Penso al caso de “Lo Sperone”. O, negli Stati Uniti, a ex mafiosi di spicco - come Sammy Gravano e Michael Franzese - che hanno i loro podcast. Cosa sta succedendo?
«Sta accadendo questo: le mafie hanno iniziato non solo a raccontarsi, ma anche a essere ascoltate, credute, ad avere spazio. Il presupposto è questo: chi si è fatto il carcere con una condanna per associazione mafiosa, avendo vissuto il crimine, lo conosce dall’interno e quindi è ritenuto un testimone attendibile. Follia pura perché, chi ha fatto parte di un’organizzazione criminale e ha scontato la sua pena, può raccontare quel singolo segmento e soprattutto dovrebbe farlo con un interlocutore che sia in grado di disambiguare il racconto. Incredibile, no? Accusano me di spettacolarizzare le mafie e di fatto passano in cavalleria i figli dei boss che raccontano di quanto i loro padri siano stati brave persone, di alti principi, mariti esemplari, genitori retti. Raccontare il crimine organizzato è difficilissimo, anche quando si parla di vicende che sembrano appartenere a un passato lontano. Per raccontarlo è necessario conoscerne storia e codici».
Torno ai due romanzi. In entrambi esplori e indaghi le dimensioni dell’amore. Due amori in contesti “ostili”. Rossella Casini, quasi ingenuamente, finisce in una gabbia mortale. Francesca Morvillo sceglie consapevolmente di chiudersi in quella gabbia. Ma l’amore ha speranza di sopravvivere in una gabbia?
«L’amore tra Francesca Morvillo e Giovanni Falcone è sopravvissuto finanche alla morte. Quello di Rossella è stato qualcosa di profondamente diverso, è stato il tentativo di agguantare un desiderio, quello di felicità attraverso la liberazione dalle regole della ‘ndrangheta».
Fra pochi giorni sarai di ritorno in Ticino. Trascorrere del tempo in un luogo fuori dall’Italia in cui però si parla italiano riesce a restituirti, anche solo in parte, il senso di libertà?
«Assolutamente sì, ecco perché torno da voi».
E da uomo finalmente libero, qual è la prima cosa che faresti?
«Non credo sia un segreto... Quello che desidero di più è una moto. Credo che farei come quando ai bambini viene regalata la prima bicicletta: girerei per ore, senza meta».




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