“L’umile Vichingo e il Fischer senza testa”, Gates Orlando sale sulla macchina del tempo

L'ex bianconero è tornato con la mente al Lugano del titolo del ‘99, quello con la colonna Andersson e il poco professionale Patrick: “Pensava a divertirsi... e invece guardatelo ora”
LUGANO - Nella primavera del ‘99 il Lugano vinse il quinto titolo della propria storia. Sul ghiaccio della Valascia i ragazzi dell’indimenticato Jim Koleff batterono 4-1 l’Ambrì. Uno dei fenomeni di quella squadra era un italiano venuto dal Canada, un centro tutto fisico e tecnica che rispondeva al nome di Gaetano Orlando.
“Gates” era un senatore di un gruppo, quello bianconero, nel quale si potevano applaudire anche Peter Andersson e Patrick Fischer...
“Peter, che giocatore fenomenale era Peter - è intervenuto proprio il 52enne italocanadese - Era una roccia. Era probabilmente la pedina più importante di tutta la squadra. Tutto cominciava da lui…”.
Aveva carattere e carisma…
“Pensate a urlacci e botte? Sbagliatissimo. Peter era tranquillissimo, umile ma anche sicuro di sé. Parlava sempre sottovoce ma tutti stavamo ad ascoltarlo”.
Ora è assistant coach. Avresti scommesso su una sua carriera in panchina?
“Ma certo. Era già allora il nostro allenatore sul ghiaccio, era il nostro direttore d’orchestra”.
E Fischer? All’epoca era un frizzante 24enne…
“Sono molto fiero di Patrick. Sono contento per quel che è riuscito a fare. A Lugano, quindici anni fa, non sapeva cosa significasse essere un professionista e invece, guardatelo ora… Non avrei mai pensato potesse fare il coach”.
Il severissimo Fischer era un “lazzarone”?
“Era un giocatore unico. Sapeva come si facevano i gol e pensava che questo bastasse per imporsi. Per lui l’hockey era solo un divertimento. Di testa - e anche sul ghiaccio - non era completo. Anzi la testa non ce l'aveva proprio”.
E poi?
“Ha capito”.
Cosa?
“Ha capito che il ghiaccio era il suo mestiere, non solo un passatempo. E ha cominciato a darsi da fare seriamente. Si è impegnato a fondo ed è migliorato, nel gioco ma anche nella preparazione a ogni match. E poi c’è il lavoro sporco: non lo faceva ma alla fine ha imparato. Magari mi ha preso come esempio, non so. Questo dovreste chiederlo a lui”.
“Gates ha ragione - ha precisato ridendo proprio Fischer - all’epoca ero un tipico giocatore offensivo, già nell’orbita della Nazionale, che però non era completo. Non pensavo al hockey nella sua completezza. Sono cresciuto negli anni, a Lugano, poi a Davos quando ho giocato centro e sono divenuto capitano…”.
Che ruolo ha avuto Orlando nella tua “formazione”.
“È stato semplicemente un esempio. Un uomo, un giocatore, che dava tutto e si batteva con passione. Mi ha portato in palestra e “insegnato” i pesi. Fece con me quello che i vari McLean e Pettersson devono fare con i giovani di questo Lugano”.



