L'orientamento giurisprudenziale che prevarica qualsiasi normativa

L'unica legge vigente è quella secondo la quale la madre è favorita, i figli sono una sua proprietà esclusiva, il ruolo educativo spetta a lei mentre il padre deve limitarsi al reperimento di risorse. Il resto è ipocrisia.
Le motivazioni della crisi di coppia dilagante, a mio parere, sono accorpabili sotto una voce unica: l'orientamento giurisprudenziale che prevarica qualsiasi normativa.
La famiglia è cambiata come diretta conseguenza dei mutati equilibri di genere; madri e padri hanno quindi iniziato un percorso di rinegoziazione dei rispettivi ruoli. Il processo iniziato negli anni '70 non è ancora giunto al termine, ma i risultati sono già da tempo macroscopici. Ad ogni mutamento sociale è strettamente correlato l'adeguamento del costume: cambia il concetto stesso di famiglia, cambiano le potenzialità reddituali, il mondo del lavoro, l'immaginario collettivo.
Alla fine degli anni '60 i sondaggi d'opinione effettuati nelle scuole superiori (fascia d'età 14 - 18 anni) riferivano come le adolescenti di allora considerassero il massimo della realizzazione personale "andare via di casa, sposarsi ed avere dei bambini". Ripetendo nel 2010 i sondaggi degli anni ‘60, si avrebbero risposte estremamente diverse. Le adolescenti della stessa fascia d'età oggi considerano meno pressante l'esigenza di "sposarsi per poter andare via da casa", i figli si possono avere anche da single o conviventi, in ogni caso attorno ai 30 anni ed oltre; prima lo studio, il lavoro, la carriera, l'indipendenza economica, la realizzazione personale. Concetti esclusivamente maschili per secoli, che il genere femminile ha iniziato a fare propri a partire dalla seconda metà del secolo scorso.
Oggi le aspettative delle adolescenti puntano ad una o più lauree, tendono alla realizzazione professionale nel giornalismo, nella psicologia, nella sociologia, nella medicina, nell'avvocatura, nella magistratura. Gettonatissime la carriera militare o paramilitare, la carriera politica e la carriera artistica. La figura maschile, invece, è sempre più proiettata all'interno della famiglia, è padre. Il nuovo impegno nella cura della prole, la maggiore attenzione alle esigenze dei figli, l'ascolto, la condivisione, il gioco, la progettualità, non idealizzano tendenze di futura concretizzazione. Sono, già oggi, in testa all'elenco delle priorità maschili. L'homo sapiens in evoluzione ha generato il pater domesticus, un individuo per il quale i valori della famiglia e dei figli hanno assunto uno spessore impensabile solo pochi anni orsono.
Contestualmente alle radicali mutazioni si è aperto il dibattito sul ruolo colpevolmente carente della figura paterna. Per trent'anni si è puntato il dito contro i padri che venivano accusati, in blocco, di autoemarginarsi dalla cura della prole, delegando le noiose incombenze "femminili", lasciando la madre sola ad allevare i figli. Per trent'anni i ruoli imposti (non dalla genetica, ma dalla cultura maschilista) di fattrice, balia ed educatrice sono stati marchiati come il pesante fardello che ostacolava la donna nella conquista di una propria autonomia professionale ed economica. Un lungo periodo denso di accuse alla cultura che ha frenato i padri dall'assumersi ruoli e responsabilità a lungo snobbati ed accuratamente evitati, perché considerati "cose da donne". Poi lentamente il costume ha iniziato un irreversibile processo evolutivo. Anche se con ritardo, la figura del padre ha acquistato un nuovo spessore che comporta la riorganizzazione degli equilibri all'interno della famiglia. Ad un maggiore spazio sociale e lavorativo per la donna corrisponde un maggiore spazio per l'uomo nelle mansioni domestiche, allevamento dei figli in testa. Non letta quale umiliante imposizione dettata dall'emancipazione femminile, ma come una gioia legata alla scoperta di nuovi piaceri/doveri. O meglio, l'89% dei padri che si rivolgono alle strutture a supporto alla bigenitorialità parla della cura dei propri figli come un cocktail di doveri, piaceri e responsabilità. Ogni onere è più che accettato; è cercato, pur senza sottovalutare le difficoltà connesse. E' naturale che occuparsi dei figli comporti dei sacrifici, la novità consiste nel fatto che tali sacrifici vengano accettati spontaneamente dai padri e non imposti dalla latitanza dell'altro sesso, come invece, a ruoli invertiti, è accaduto alle madri.
I problemi nascono e si moltiplicano quando la coppia entra in crisi e si arriva alla separazione. I nuovi padri non sono più disposti ad accettare che la separazione dall'ex coniuge degeneri in separazione dai figli, non accettano l'interruzione del progetto genitoriale, rivendicano il diritto di avere dei doveri. Partendo dal principio che ogni bambino sia titolare di 100 diritti (uno dei quali è, e deve rimanere, il diritto al mantenimento economico), i padri separati chiedono che siano garantiti anche gli altri 99: il diritto a non diventare strumento degli attriti di coppia, il diritto a relazioni costanti con entrambi i genitori, il diritto a non subire ingerenze per le visite o i contatti telefonici, il diritto di essere supportati negli studi, consigliati nelle scelte, seguiti sotto l'aspetto sanitario, nelle attività ludiche, sportive, e tanto altro ancora. Il diritto al mantenimento sembra essere, però, l'unico oggetto di tutela giuridica.
Chi vorrebbe occuparsi dei figli anche dopo la separazione viene percepito come l'invasore di un terreno altrui. Il sistema sociogiudiziario (giudici, consulenti, assistenti sociali) che gestisce le separazioni, infatti, agisce su due livelli, secondo modalità definite da alcuni autori "schizofrenizzanti".
Al primo livello impone ciò che condanna al secondo. Un genitore che, da sposato, vuole occuparsi dei figli un pomeriggio a settimana e due domeniche al mese, due settimane d'estate e 5 giorni a Natale viene considerato dal sistema un genitore assente, abbandonico, inadeguato. Il verdetto? Incapacità genitoriale.
Un genitore che, da separato, rifiuta di occuparsi dei figli solo un pomeriggio a settimana e due domeniche al mese, due settimane d'estate e 5 giorni a Natale, viene considerato dal sistema un soggetto che non sa accettare il dispositivo giuridico, quindi conflittuale ed inadeguato. Il verdetto? Incapacità genitoriale.
L'esempio italiano è inequivocabile: la riforma del 2006 è nata per garantire ai figli la presenza di entrambi i genitori, mentre nei tribunali del Belpaese continuano ad essere trasportate di peso le vecchie prassi che fanno della madre il genitore prevalente. Limitare il ruolo paterno era la parola d'ordine, lo è rimasta tutt'ora. Ecco che una legge apparentemente imparziale viene stravolta all'atto pratico, con una applicazione unidirezionale: l'orientamento giurisprudenziale prevarica qualsiasi normativa.
Vale la pena lottare per una norma apparentemente equa, ma volutamente inapplicata? Allora perché non dire la verità? Perché non scrivere ciò che tutti sanno ma che nessuno vuole ammettere? Perché arrampicarsi con vere e proprie acrobazie dialettiche sui principi di bigenitorialità, pari diritti e pari doveri fra genitori? Perché affannarsi a dichiararli sulla carta, quando poi vengono sistematicamente disattesi nell'applicazione pratica?
L'unica legge vigente è quella secondo la quale la madre è favorita, i figli sono una sua proprietà esclusiva, il ruolo educativo spetta a lei mentre il padre deve limitarsi al reperimento di risorse. Il resto è ipocrisia. Evitiamo di creare illusioni, e tanti saluti alla bigenitioralità.
Qualsiasi legale sa perfettamente che ricevendo a studio una donna separanda sa di aver vinto prima ancora di entrare in tribunale, l'unica variabile da definire è "quanto" riesca a farla vincere. Difendendo un padre invece può solo cercare di limitare i danni.
Chi finge di non conoscere questa realtà scomoda, impopolare e politically very incorrect, non può essere che in malafede.
Fabio Nestola,
Presidente della Federazione Nazionale per la Bigenitorialità ( http://www.fenbi.it )
Ospite della rubrica "Papageno: in nome dei padri"



