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LUGANOUna città leggendaria e un disco storico: "A Berlino... va bene" arriva allo Studio Foce

31.03.22 - 06:00
Garbo arriva a Lugano per i 40 anni del suo esordio-capolavoro. Di oggi dice: «Non è facile raccontare il vuoto»
BARLEY ARTS
Garbo in concerto a Lugano il 2 aprile.
Garbo in concerto a Lugano il 2 aprile.
Una città leggendaria e un disco storico: "A Berlino... va bene" arriva allo Studio Foce
Garbo arriva a Lugano per i 40 anni del suo esordio-capolavoro. Di oggi dice: «Non è facile raccontare il vuoto»

LUGANO - Sabato 2 aprile alle 21.30 lo Studio Foce di Lugano ospita una tappa del tour celebrativo per i 40 anni di un disco fondamentale del panorama musicale italiano: "A Berlino... va bene", che segnò l'esordio di Garbo. Brani celebri che ora il cantautore milanese ha rivestito, insieme al produttore e performer Eugene, con una nuova veste elettronica. Un'ottima occasione per scambiare quattro chiacchiere con lui.

21 settembre 1981: escono nei negozi "La Voce del Padrone" di Franco Battiato e il suo "A Berlino... va bene". Un giorno storico per la musica italiana: le sono rimaste impresse quelle ore?
«Non ricordo con esattezza cosa ho fatto quel giorno, anche perché è passato qualche anno (ride, ndr). Ma è stato sicuramente il momento che mi ha cambiato la vita: riuscivo a dare dimostrazione pubblicamente del mio pensiero e della mia idea di suono».

L'estate prima aveva aperto i concerti proprio di Battiato...
«Un tour bello e lungo: circa 60-65 date. Era quel periodo storico in cui i concerti si facevano ed erano tanti: noi avevamo un giorno libero ogni dieci. Abbiamo attraversato l'Italia da nord a sud, e poi ritorno. Un'esperienza che mi ha dato molto: viaggiavo, mangiavo, vivevo la realtà concertistica di Battiato e ho avuto la possibilità di farmi conoscere ancora prima di pubblicare il primo album. Quel periodo, sì, lo ricordo bene, con tutta l'attesa che arrivasse il momento della pubblicazione».

"A Berlino... va bene" è un album italiano ma dal respiro internazionale, sia per i contenuti musicali che per le scelte linguistiche (si spazia dal francese all'inglese, passando per il tedesco). Nell'epoca di Internet è facile valicare i confini del proprio ambito culturale, ma è stato difficile farlo allora?
«Mi è venuto naturale farlo, era ciò che avevo in mente ed è stato tutto molto spontaneo. Un album che raccoglie le idee che avevo coltivato da ragazzo e che ha provocato un certo effetto straniante nella discografia di allora. "Non so cosa significhi ma è bello", mi è stato detto (ride, ndr). Era un mondo abbastanza nuovo: nasceva lì la new wave, fatta da musicisti miei coetanei o anche più giovani di me. Non sapevamo ancora cosa sarebbe diventata quella musica, che aveva davvero un respiro internazionale. Personalmente, volevo uscire dallo schema estremamente italiano di creare la canzone, incentrato esclusivamente sulla melodia. Quindi temi nuovi e attenzione anche alle lingue straniere, al suono della parola».

Dobbiamo concludere che i discografici, una volta, avevano più coraggio?
«Assolutamente sì. C'era un approccio più artigianale alla creatività e alla sua diffusione. Riguardava tutti nell'ambiente: la mia etichetta, la Emi, è una multinazionale che spaziava dai Rolling Stones a Frank Sinatra, con in Italia Battiato, Alan Sorrenti, Alice e Pino Daniele. C'era maggior disponibilità economica e si poteva osare di più, ma anche maggior interesse per le novità che si affacciavano. C'era ancora la figura del talent scout, che andava a scovare gli artisti e andava a pescare il nuovo, il diverso. Oggi è tutto pianificato a tavolino e c'è molta omologazione».

Il disco venne alla luce durante un'epoca inquieta: la guerra fredda, il terrorismo in Italia... Si sarebbe immaginato, scrivendo "Futuro", che sarebbero arrivati tempi anche più complicati?
«Tra i punk, i post-punk e i new wavers si usava questo slogan: "No Future". La visione oscura del futuro ce la portavamo addosso e il tentativo di anticipare ciò che sarebbe accaduto, di leggere gli avvenimenti prima degli altri era un punto di forza. Per un artista significava anticipare il suono, la parola, il verbo. Ricordo che in un'intervista del 1981 dissi: "Vorrei avere la carta d'identità con la dicitura 'europea' per la cittadinanza e Berlino come capitale". Questo è avvenuto, ma non nel sogno di grandezza di un ragazzo di 20 anni: piuttosto nell'allucinante massificazione che ha annientato i caratteri nazionali».

Come vede l'epoca contemporanea?
«Siamo in un momento storico abbastanza oscuro, al di là della guerra e della pandemia. Sembra quasi che ci sia un appiattimento, se non azzeramento culturale. È veramente l'era del Grande Fratello, quello orwelliano. Credo che per i ragazzi, oggi, sia difficile anche solo esistere. Soprattutto artisticamente: distinguersi, avere un carattere netto, personale, riconoscibile. E non è facile raccontare il vuoto».

Il disco è dominato, fin dal titolo, da una città: Berlino.
«Quella di oggi è una bella città, omologata, simile a molte altre capitali europee. Ma la Berlino che descrivevo io era un'altra cosa. Era il punto d'incontro-scontro tra l'Ovest e l'Est, le tensioni lì si vivevano realmente ed erano molto affascinanti per i creativi. Quando ci andai nell'81 trovai un'atmosfera pazzesca, che potevi tagliare con il coltello! Ecco perché molti artisti hanno voluto toccare con mano e vivere quella sorta di grande serbatoio».

Ma c'è anche Milano...
«La città in cui sono nato e che ho frequentato per motivi miei, personali prima e di lavoro poi. Anche lei ha subìto cambiamenti molto forti ed è diventata una metropoli occidentale come tante altre. Ora è massificata e trasformata in un grande centro commerciale».

Che idea c'era nello staccarsi dal cliché del cantautore canonico e nel dare vita a un alter ego forte, simile a quelli proposti per esempio da David Bowie?
«Volevo attingere alla scena internazionale anche attraverso l'immagine, il linguaggio fisico e quindi abbandonare quel sentiero culturale italiano che trovavo limitato. Si trattava di creare delle strade veloci, per così dire, che potessero essere riconoscibili anche altrove. Anche se, vivendo e lavorando in Italia, dovevo fare i conti con la realtà che mi circondava».

Non ha mai pensato a come il pubblico avrebbe recepito la sua proposta musicale?
«Ero perfettamente consapevole del fatto che, per ovvi motivi, non sarei mai stato nazionalpopolare. Come non lo era nemmeno Battiato, anche se poi ha avuto la carriera che tutti conosciamo».

A proposito di Battiato: non posso fare a meno di pensare che in "Centro di gravità permanente" cantava di non sopportare la new wave italiana...
«E nel farlo rideva come un pazzo (ride, ndr). Lui era molto siciliano, quindi "de coccio", ma anche molto divertente. Era assolutamente ironico e in quel brano ha citato generi che, in fondo, lo affascinavano. Non a caso fu lui a dire alla Emi che fossi io ad aprire i suoi concerti...».

La prevendita è su Biglietteria.ch. Apertura porte alle 21. Ticket disponibili anche in cassa serale fino a esaurimento posti. Dopo le 23 gli under 16 devono essere accompagnati da un maggiorenne responsabile del loro comportamento.

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