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CANTONEGino Paoli: «"Il cielo in una stanza"? È nata grazie a una prostituta»

01.03.17 - 06:00
In attesa di vederlo esibirsi al Lac di Lugano il prossimo 12 marzo, abbiamo posto qualche domanda al grande cantautore italiano
Gino Paoli: «"Il cielo in una stanza"? È nata grazie a una prostituta»
In attesa di vederlo esibirsi al Lac di Lugano il prossimo 12 marzo, abbiamo posto qualche domanda al grande cantautore italiano

LUGANO - Tra i grandi protagonisti della “Scuola genovese”, a quattro anni dalla sua esibizione a Estival Jazz, tra pochi giorni Gino Paoli tornerà sul palco alle nostre latitudini, portando con sé le sue canzoni, le sue musiche, che, come poche altre, nel corso degli ultimi cinque decenni hanno fatto il giro del mondo, dei generi musicali, imprimendosi - di diritto - nella memoria collettiva.

Signor Paoli, come ricorda i primi momenti della “Scuola genovese”,  in compagnia di Fabrizio De André, Umberto Bindi, Luigi Tenco, Sergio Endrigo e Bruno Lauzi?

«Quando penso a loro non penso mai a una “scuola”: a me piace ricordarli come amici di cui ho nostalgia, che è quello che realmente sono per me. Non penso a loro come cantautori. Eravamo molto affiatati anche se tutti diversi. Non volevamo fare delle canzoni che piacessero agli altri e avevamo solo l’esigenza di esprimere qualcosa. Pensando a Bindi, Tenco e Lauzi mi emoziono. Siamo cresciuti insieme, sono gli amici di una vita: ad esempio, Luigi era come un fratello minore e Bruno mi manca moltissimo anche se litigavamo sempre. Aveva un coraggio da leone e una capacità unica di prendere la vita con umorismo. Nei miei concerti ci sono sempre anche loro...».

Quali erano i vostri ascolti, le vostre letture?

«Soprattutto i francesi: Brassens, Brel».

Con quale frequenza vi incontravate?

«Ci incontravamo ogni sera in Via della Foce a Genova. Insieme, specie con Luigi, abbiamo cominciato ad amare la musica e il rock. Una sera, nel 1955, con Tenco andammo al cinema a vedere "Il seme della violenza", un film con Glenn Ford. Iniziava con una schermata nera e poi si sentiva una canzone del grande Bill Haley: era “Rock Around The Clock”. Io e Luigi ci guardammo e decidemmo che da quel momento quello sarebbe stato il nostro linguaggio».

Come e quando scoprì il jazz?

«Ho cominciato ad ascoltare il jazz a 12 anni: davanti a casa mia c’erano i carri armati americani, da cui “fuoriusciva” quella musica... Quando ho sentito la tromba di Louis Armstrong è stato un colpo di fulmine. Il jazz è qualcosa che  nella vita mi ha sempre accompagnato e che sicuramente mi ha influenzato da subito nella costruzione delle canzoni, sia nella base melodica, sia in quella armonica».

Come nacque “La gatta”?

«“La gatta” la scrissi nel ’59, una canzone dal destino buffo. Mi ero appena trasferito in una casa nuova, prima abitavo in una piccola soffitta a Boccadasse. Dopo un mese dal trasloco, Ciacola, la gatta a cui ero affezionato, passò a miglior vita. Per me fu una specie di boa, qualcosa che cambiava. Un segno: la mia vita da bohémien stava cambiando. Scrissi questa canzone e la incisi. All’inzio ne furono stampate solo 150 copie, per vedere come andava. Andò nei juke-box di tutt'Italia e, a poco a poco, salì in tutte le classifiche: io, di conseguenza, mi trovai improvvisamente a fare il divo della canzone».

E “Il cielo in una stanza”?

«La scrissi nel 1961, e non è altro che la mia storia d’amore con una prostituta, nata in un bordello di Genova, di cui mi innamorai quando ero molto giovane.  Avevo 17 anni, me la sognavo di notte, ero completamente preso da lei. Fu forse il mio primo grande amore. Passai giorni in camera con lei: ero il ragazzo più felice del mondo, e persi il senso del tempo che passava. La camera dove stavamo aveva il soffitto dipinto di viola con uno specchio. Successivamente, cominciammo a frequentarci regolarmente, al di fuori del bordello. Ricordando quei giorni, quel soffitto, quell’amore strano, quell’avventura che mi fece perdere la testa, molti anni dopo ho scritto “Il cielo in una stanza”».

Come vede “le attuali condizioni di salute” della musica italiana?

«Più che della musica italiana, farei un discorso in generale. Mi pare che la tendenza sia che la canzone è tornata a essere un accompagnamento, un’atmosfera, piuttosto che un’espressione diretta. Faccio un esempio: io non riesco ad ascoltare la musica e fare altro. Invece, oggi, la musica si può sentire facendo altre cose... Almeno questo è ciò che vedo... Credo che la buona musica, così come qualsiasi altra forma d’arte, sia quella capace di catturarti completamente e farti emozionare. Se manca l’emozione diventa semplice intrattenimento».

Cosa vuole anticipare a coloro che assisteranno al suo concerto in programma a Lugano nei prossimi giorni?

«Difficilmente preparo le mie scalette, la maggior parte delle volte suono seguendo l’emozione del momento. Sicuramente ci saranno le mie canzoni, quelle a cui il pubblico è più affezionato...».

Quel giorno passerà a trovare Mina, che, come sa, vive da queste parti?

«Non so…».

 

 

 

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