«La situazione è esplosiva... E la colpa è anche degli Stati Uniti»


Il ricercatore presso l'Istituto di Affari internazionali (Iai) di Roma, Diego Maiorano, commenta la crisi in Kashmir.
Il ricercatore presso l'Istituto di Affari internazionali (Iai) di Roma, Diego Maiorano, commenta la crisi in Kashmir.
NEW DEHLI / ISLAMABAD - Si è riacceso il conflitto tra India e Pakistan per il controllo della regione contesa del Kashmir. La scintilla? L'attentato terroristico lanciato la settimana scorsa da un gruppo terroristico che secondo New Dehli è direttamente legato a Islamabad. Ieri è giunta la contromossa indiana: un attacco missilistico contro le basi terroristiche da cui è presumibilmente partito l'attacco, e in cui l'aviazione indiana avrebbe perso 5 jet da combattimento di ultima generazione. Una notizia che, se confermata dal comando maggiore di New Dehli, comporterebbe una pesante e umiliante sconfitta per l'India. Ne abbiamo parlato con il ricercatore associato presso l'Istituto di Affari internazionali (Iai) di Roma ed esperto di politica indiana, Diego Maiorano.
Due Stati che condividono una frontiera lunga migliaia di chilometri e che da sempre intrattengono relazioni di reciproca vigilanza e diffidenza. Quali sono le origini del conflitto indo-pakistano?
«Il conflitto nasce con la creazione dei due Paesi. Quando gli inglesi se ne andarono e spartirono l'India su base religiosa, il Pakistan divenne un Paese musulmano e l'India uno Stato laico. La regione del Kashmir era a maggioranza musulmana, ma l'allora regnante, il Maharajah Hari Singh, decise di aderire all'Unione indiana. Per il Pakistan era importante diventare la casa dei musulmani del subcontinente e per l'India, invece, includere una regione musulmana nel suo territorio rispecchiava l'ideale di Stato laico e democratico che il presidente del Consiglio indiano, Jawaharlal Nehru, voleva implementare».
E oggi invece?
«Queste origini, oggi, sono meno importanti. La prima guerra tra India e Pakistan per il controllo del Kashmir (1947) ha prodotto uno status quo, che è rimasto invariato. E nessuno dei due Paesi può permettersi di cedere la parte che controlla. Sarebbe un suicidio politico. Ormai sono 80 anni che entrambi intendono la regione come parte integrante del proprio territorio. Al momento non è possibile raggiungere un compromesso diplomatico».
Dunque l’unica via è la guerra?
«Ce ne sono state quattro, di cui tre per il Kashmir. Ma se andiamo a contare il numero effettivo di giorni di guerra, ne troviamo soltanto un centinaio. Il resto è stato scandito da un cessate il fuoco semi-permanente, con scontri sporadici al confine. E quella attuale è una crisi importante».
In cosa differisce?
«La situazione è diversa soprattutto perché questa volta, gli Stati Uniti, che hanno sempre svolto un ruolo di mediazione tra i due Paesi, non sembrano volersi occupare della questione. Una parte del Dipartimento di Stato americano sta monitorando la situazione, soprattutto perché entrambe le parti possiedono la bomba atomica. Ma non si registra la pressione che gli Stati Uniti hanno esercitato in passato. Questa è la grande differenza. Per il resto la situazione è abbastanza simile».
È possibile che i due governi decidano di utilizzare la bomba atomica?
«La probabilità è pressoché nulla. E anche la probabilità che il conflitto si allarghi è abbastanza ridotta. Se in questo momento dovessi scommettere, scommetterei sul fatto che le operazioni militari si sono concluse».
Esistono iniziative che spingono per una risoluzione pacifica del conflitto?
«Una parte della società civile sta cercando di instaurare un dialogo tra i due Paesi, ma è da considerarsi minoritaria, al punto da essere irrilevante. La maggior parte dei media spinge per una linea aggressiva, soprattutto in India. La galassia del nazionalismo indiano legato al partito del Primo ministro Modi sta spingendo per entrare in guerra con il Pakistan. E questa dimensione politica del conflitto complica ulteriormente la situazione».