Gaza, andata e ritorno dall'inferno: «Non c'è più cibo, l'acqua scarseggia»


Aurelia Barbieri, psicologa di "Medici senza frontiere", è appena rientrata dalla Striscia: «Da 50 giorni non entrano medicine nè alimenti»
Aurelia Barbieri, psicologa di "Medici senza frontiere", è appena rientrata dalla Striscia: «Da 50 giorni non entrano medicine nè alimenti»
STRISCIA DI GAZA - «Sono partita da Amman e sono entrata a Gaza da sud durante il cessate il fuoco. Dal momento in cui metti piede all'interno della Striscia vedi solo devastazione intorno a te. Nonostante ci fosse il cessate il fuoco, c'era poca gente in giro. Tieni presente comunque che in un contesto di continue evacuazioni e distruzione massiva da parte di Israele, la gente si muove tanto e continua a muoversi. L'ingresso è visibilmente impattante: di posti in cui ci sono disastri, catastrofi naturali o guerre ne ho visti diversi, quindi pensavo di essere abbastanza pronta e preparata a quello che avrei visto, ma in realtà quello che ho visto era ben al di là di ogni possibile aspettativa, ovviamente in senso negativo».
È cominciato così l'ingresso di Aurelia Barbieri, psicologa di Medici senza frontiere, dentro quel lembo completamente sventrato di Palestina posato davanti al mare. Il suo primo contatto diretto con la sofferenza della gente della Striscia l'ha avuto in un reparto dell'ospedale di Nasser, che fa capo al ministero della Salute, ma dove "Medici senza frontiere" offre il suo supporto.
«La "normalità" di Gaza: nei letti d'ospedale bambini che non hanno più nessuno» - «Le prime persone che ho visto arrivando a Gaza sono stati dei bambini - racconta - il primo era un bimbo minuscolo nato prematuro, molto ma molto piccolo e intorno a lui c'era solo un infermiere che in quel momento gli stava dando da mangiare, con un garbo e una dolcezza davvero impressionanti; il secondo - ricorda - avrà avuto tra i 3 e i 4 anni. Era lì in un lettino della terapia intensiva pediatrica, completamente da solo. Noi di solito siamo abituati a vedere i bambini ricoverati che hanno sempre accanto qualcuno, o la mamma o il papà. Ma la madre era anche lei in terapia intensiva, il papà era morto sotto i bombardamenti. A Gaza è anche questa la normalità».
«L'acqua scarseggia, non entra più cibo e le scorte sono finite» - Nelle giornate disumane cui è costretta la popolazione, dai cui registri dell'anagrafe la guerra ha cancellato i nomi di 50mila persone, «anche se sono molti di più i morti, fra quelli mai recuperati sotto le macerie e quelli che sono stati privati delle cure», c'è anche la drammatica situazione che si sta vivendo lì oramai da diverse settimane per il blocco delle frontiere.
«Sono oltre 50 giorni che non entrano medicinali, non entra cibo e le scorte sono finite - spiega il medico Barbieri - e i forni sono chiusi da almeno tre settimane. L'acqua scarseggia, non essendoci più l'elettricità che manteneva le pompe per desalinizzare l'acqua. Oramai - dice - praticamente di acqua dolce non ce n'è quasi più».
«Occorrerà molto tempo per guarire dalle ferite interiori» - L'equipe di salute mentale di cui fa parte cerca disperatamente in ogni modo di curare le ferite interiori, «molto difficili da rimarginare perché occorrerà molto tempo», oltre che dei pazienti con i loro corpi martoriati dalle esplosioni di droni e missili, anche degli scampati e sopravvissuti alle bombe.
«Ci mettiamo a disposizione delle persone ricoverate in ospedale - spiega - ma offriamo il nostro supporto anche ai loro familiari, facendo attività di gruppo per i bambini, per le donne».
Depressione e ansia anche fra i più piccoli - In un luogo dove tutto è stato spazzato via e ridotto a macerie, «non essendoci più luoghi di aggregazione e di confronto dove si esprime in una società normale di solito la socialità, è molto importante mettere in piedi queste attività di gruppo, ad esempio di sensibilizzazione su temi quali i sintomi depressivi o ansiosi, o anche sulla gestione dei comportamenti dei bambini che possono essere cambiati a causa della guerra. E allora spieghiamo ai genitori cosa sono questi sintomi, perché esistono e cosa si può fare per poterli alleviare».
«Perché là fuori nessuno si preoccupa di noi?» - Il medico di Medici senza frontiere racconta di «bambini che a 7 o 8 anni sono tornati a farsi la pipì addosso, che hanno paura a stare da soli, vogliono essere sempre accompagnati anche nel loro ambiente famigliare, se ne stanno isolati, non giocano più e non hanno più voglia di stare con gli altri bambini, insomma atteggiamenti regressivi».
Barbieri e i suoi colleghi, nelle strutture che l'organizzazione ha messo in piedi a Khan Younis, cercano di coinvolgere la popolazione e non farla sentire da sola. C'è una domanda però che la gente di Gaza si fa spesso e che Barbieri ha raccolto in più di un'occasione parlando con le persone.
«Mi chiedono "ma perché là fuori nessuno si preoccupa di noi? Perché là fuori a nessuno interessa che i nostri bambini vengano massacrati tutti i giorni?". Non è difficile immaginare che molto spesso queste sono domande destinate a restare sospese nell'aria perché prive di una risposta.
Nei disegni dei bimbi ci sono case integre e cieli azzurri con droni ed elicotteri - «Il dramma che vivono i bambini che cerchiamo di aiutare è evidente - prosegue il suo racconto la psicologa di Medici senza frontiere - e lo si vede osservando i loro disegni. Disegnano case, ovviamente integre, e colorano di tanto azzurro il cielo, dove però fanno comparire dei droni e degli elicotteri. Nei nostri spazi, che sono molto frequentati, noi ovviamente offriamo dei pastelli nuovi e tutto il materiale che serve al disegno. Mi commuove ancora l'immagine di tanti bambini che arrivano nei nostri locali con i loro astucci smembrati e impolverati raccolti tra le macerie e i resti di matite piccolissime, ma ancora di più l'esplosione di emozione quando si accorgono che sui banchi abbiamo posato per loro degli astucci nuovi, delle matite nuove, dei fogli bianchi puliti».
I bambini fanno cose da adulti: «Vanno a cercare le bombole del gas e fanno la coda per il pane» - Sotto le bombe, spiega la psicologa, «i bambini hanno modalità diverse di giocare. Inoltre, da quando è iniziata la guerra hanno smesso di andare a scuola. Cerchiamo - spiega Barbieri - di ricostruire la loro vita sociale. L'idea di poter avere a disposizione uno spazio relativamente protetto - argomenta - con dei tavolini, delle seggioline, dei quaderni, delle biro e la possibilità di stare lì ad ascoltare delle favole, cantare, disegnare o a parlare interagendo con uno dei nostri counselor sulle emozioni da rappresentare, è per loro molto importante, e per noi commovente vedendoli riempirsi di gioia».
Poi, finita la scuola, la realtà intorno a loro li costringe a diventare di colpo adulti: «Fanno cose che dovrebbero fare i grandi, come andare a cercare da mangiare e fare la fila per gli alimenti da portare in famiglia, recuperare qualche bombola del gas: sono scene che ho visto quotidianamente, non solo la prima volta quando sono arrivata e con la nostra auto passavamo nelle strade di sabbia della città».
«Si muore di fame, non solo di bombe» - Riferisce che in questo momento, «non essendoci libertà di movimento anche le evacuazioni mediche sono difficili. Cioè, se una persona è gravemente malata non può essere trasferita a suo piacimento. Molti muoiono così, oltre che di malnutrizione».
«La notte in cui siamo stati svegliati dai missili che cadevano vicino a noi» - L'illusione che la guerra a Gaza potesse finire con quel briciolo di tregua è durata pochissimo e ovviamente Israele non ha certo comunicato nè alle organizzazioni umanitarie nè alla popolazione la ripresa delle ostilità. La comunicazione è arrivata a suon di missili e droni.
«La notte del 17 siamo stati svegliati così - ricorda Barbieri - è stata la notte più intensa a livello di bombardamenti dall'inizio della guerra. Hanno bombardato ovunque, in tutti i 41 chilometri della Striscia. Abbiamo cercato di metterci al riparo, ma non hai molte possibilità di stare al sicuro. In quei momenti speri solo che la bomba non cada sopra la tua casa».
Una delle scene più agghiaccianti dei morti di Gaza è stata la famosa foto, che ha fatto il giro del mondo, della bambina appesa a penzoloni da una finestra di una casa bombardata: Barbieri ne ricorda anche altre, meno forti da un punto vista visivo, ma altrettanto drammatica.
«Una delle scene più dolorose è stato vedere a febbraio i bambini, anche i neonati, morire di freddo dentro le tende, i loro piedini viola, la disperazione delle loro mamme. Immagini da un mondo disumano. Mia madre mi telefonava, ovviamente preoccupata, dicendomi di non credere alle immagini che vedeva, talmente assurde che "il mio cervello è come mi dicesse...tranquilla...stai guardando un film" mi confessava al telefono».
L'ultimo pensiero mentre lasciava Gaza - L'ultimo pensiero che Aurelia ha fatto, mentre varcava un'altra volta il confine lasciandosi dietro quel cimitero di disperazione e rovine, lo sta ancora cercando di metabolizzare: «Noi - confida - siamo abituati per lavoro ad andare in posti che anche emotivamente diciamo che un pochettino ci rubano il cuore: perché sei in posti in cui vedi tanta sofferenza e tanta ingiustizia e però sai che magari sono posti in cui presto o tardi tornerai, perché poi purtroppo i posti in cui c'è bisogno gira e rigira sono sempre gli stessi. Ti confesso che io sono uscita con un po' il sollievo di essere riuscita a uscire, la vergogna di aver avuto il lusso di poter uscire, e il pensiero del chissà se riuscirò mai più a ritornare».