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Morti e dimenticati, ma Cristina Cattaneo li cerca per restituire loro la dignità

FESTIVAL DIRITTI UMANIMorti e dimenticati, ma Cristina Cattaneo li cerca per restituire loro la dignità

26.10.23 - 06:30
L'antropologa forense e anima del Labanof di Milano sarà al Film Festival Diritti Umani Lugano con il documentario "Sconosciuti puri"
Sconosciuti puri
Morti e dimenticati, ma Cristina Cattaneo li cerca per restituire loro la dignità
L'antropologa forense e anima del Labanof di Milano sarà al Film Festival Diritti Umani Lugano con il documentario "Sconosciuti puri"

LUGANO - Identificare il corpo di una vittima. È una delle operazioni che si trovano alla base di una qualsiasi indagine. Che sia per morte naturale o violenta. Eppure per molti - per migliaia di persone - essere riconosciuti rappresenta un privilegio.

Quando un peschereccio, una barca, un gommone affondano nel Mediterraneo, a meno che non vi si trovassero a bordo cittadini bianchi o comunque che non fossero in fuga da guerre, carestie, dittature e povertà verso l'Europa, si liquida l'argomento riassumendo le vite di centinaia di persone in "naufragio di migranti". Chi fossero, dove stessero andando e quali fossero le loro speranze e i loro sogni, se delle persone li stessero aspettando, sono tutti argomenti secondari.

L'importanza di dare a queste persone un nome e di comunicare alle famiglie il loro decesso non è però marginale per Cristina Cattaneo, antropologa forense, medico legale e anima del Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense (Labanof) dell'Università degli Studi di Milano. Da anni si batte richiedendo fondi e leggi per riconoscere queste vittime sconosciute, investendo il suo tempo e le sue risorse, conducendo autopsie e parlando personalmente con i famigliari delle vittime e dimostrando giorno dopo giorno che un metodo esiste, basta solo volerlo applicare.

L'antropologa parteciperà questa sera alle 20:30 al Film Festival Diritti Umani Lugano. Su di lei è stato realizzato il documentario "Sconosciuti puri" per la regia di Valentina Cicogna e Mattia Colombo. A seguito della proiezione si terrà il dibattito "Corpi senza nome: restituire i diritti a chi non ne ha avuti". Nell'attesa l'abbiamo incontrata.

Sia leggendo i suoi libri, sia guardando il documentario di cui è protagonista, si notano subito le difficoltà in ambito economico del suo tentativo di dare un nome alle vittime dei naufragi nel Mediterraneo. Davanti a tante porte chiuse, credo che chiunque avrebbe finito per tirarsi indietro. Lei no. Perché?
«Continuo a pensare che prima o poi le cose cambieranno, che sarebbe un tradimento mollare, che da qualche parte in qualche modo qualcosa potrà succedere. Sono consapevole di essere un po’ troppo ottimista, ma se molliamo ora perderebbe senso tutto quello che abbiamo fatto. Le battaglie per i diritti in fondo sono sempre lunghe e in salita».

Ha mai pensato ad altre vie per sostenere il suo lavoro, come un crowdfunding? O è forse un tipo di sostegno finanziario che non verrebbe accettato?
«Bella domanda. Io non sono brava a raccogliere fondi, ma credo che il messaggio sarebbe sbagliato. Il crowdfunding risolverebbe i problemi identificativi di un naufragio, due, dieci, ma non cambierebbe il sistema. Noi invece vogliamo una legge che cambi il sistema e che obblighi gli stati membro dell’Europa a raccogliere i dati di queste vittime e delle loro famiglie come per qualsiasi disastro, e muoversi per identificarli».

Quando si è resa conto che non esiste nessun obbligo nazionale per riconoscere le vittime del Mediterraneo, qual è stata la sua prima reazione?
«Non di grande sorpresa, perché, in fondo, anche per il singolo sconosciuto italiano non esiste alcun obbligo a muoversi per l’identificazione (esiste solo l’opportunità per il caso giudiziario), ed è così anche in Francia. È per questo che con i colleghi anche stranieri stiamo cercando di rendere obbligatoria questa attività in Europa, per i migranti, ma anche per chi nei singoli Paesi perde la sua identità, come chi vive ai margini della società ma anche persone più “normali”».

Ci sono altri ambiti in cui trova che i governi tendano a deresponsabilizzarsi rispetto alle migrazioni? Alla vita dei rifugiati?
«Si certo, per esempio rispetto alle questioni relative a come procedere per comprendere se un minore non accompagnato è veramente minorenne, oppure all’assistenza medico legale che dovrebbe essere data ai richiedenti asilo per aiutare loro nell’ottenere qualche forma di protezione politica».

Dalla pubblicazione di "Naufraghi senza volto" è stato possibile identificare ulteriori vittime dei naufragi del 2013 e del 2015?
«Sì sì, ora ne abbiamo identificate una cinquantina del 2013 e una trentina del 2015».

Questi due eventi avevano scatenato nell'Italia di allora un'enorme risposta umanitaria. Trova che questo slancio positivo sia andato scemando? Saprebbe indicarci un motivo?
«È sicuramente scemato e non era già molto frequente prima. Ma la fine di Mare nostrum (l'operazione umanitaria e militare che l'Italia lanciò nel 2013 perché non si ripetessero gli eventi del 3 ottobre e che venne sostituita con un'operazione europea volta al controllo delle frontiere appena un anno dopo, ndr) ha creato la chiave di svolta. Si figuri che a quei tempi la marina militare perlustrava le acque non solo per salvare i vivi ma anche per recuperare i morti».

È mai stata attaccata per il lavoro che svolge, sia da parte del pubblico, sia magari da colleghi? O chi in precedenza le remava contro ha cambiato idea vedendo i risultati raggiunti?
«Non credo di essere mai stata attaccata con violenza, semmai mi è stato detto qualche volta soprattutto all’inizio che dovrei occuparmi dei problemi nostri. Il colpo peggiore me lo ha dato un mio collega direttore di un istituto di medicina legale che, quando avevo chiesto se avrebbe inviato a Melilli i suoi specializzandi per aiutare nelle autopsie per identificare i morti (del naufragio del 18 aprile del 2015, ndr), mi aveva detto che non li avrebbe mandati perché era per loro un lavoro denigrante».

 

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