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L'INTERVISTA

«Legato al Ticino, mi sento italiano ma il sangue è kosovaro»

Rilind Nivokazi, bomber infinito
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«Legato al Ticino, mi sento italiano ma il sangue è kosovaro»
Rilind Nivokazi, bomber infinito
«Dal Lugano mi aspettavo una considerazione diversa, lo dico senza arroganza».
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SION - Uno dei motivi del buon campionato fin qui disputato dal Sion - raramente così in alto in classifica da una decina d'anni a questa parte - si può “spiegare” in due parole: Rilind e Nivokazi.

Ovvero nome e cognome di un bomber atipico, kosovaro nell’anima, umbro di nascita (e accento), maturo in quanto a età ma, causa un percorso tortuoso, ancora lontano dall’aver espresso il suo massimo potenziale. Con i vallesani, il 25enne nativo di Perugia ha fin qui timbrato il cartellino sei volte in tredici partite. Score importante per un giocatore che è sì cresciuto in un Settore giovanile prestigioso come quello dell’Atalanta e che ha giocato in Serie C con Lecco e Foggia, ma che fino a un paio di anni fa si muoveva in Promotion League. A Chiasso prima, a Rapperswil poi e per finire con il Lugano II.

«Chiasso è stata una tappa fondamentale della mia carriera – ha spiegato proprio l’attaccante biancorosso – lì ho ripreso a giocare con continuità, e mi serviva, anche se per farlo sono dovuto scendere di livello. Però mi sono sentito di nuovo importante, ne avevo bisogno».

Ripartire dal basso è però forse necessario, o almeno consigliato, quando si cambia campionato.
«All'inizio, i primi sei mesi diciamo, è stato molto difficile. Questo perché il calcio italiano è molto diverso da quello svizzero. In Italia c’è più tattica, magari sono più maliziosi, ma qui devi andare a 100km/h per tutto il tempo. È un calcio di intensità, di spettacolo, di continui cambi di fronte. A volte si dice che il campionato svizzero è semplice, poi però lo provi sulla tua pelle…».

L’ultimo anno di Promotion League è stato bianconero: 27 presenze, 14 gol in campionato e… nessuna chiamata per la Prima squadra. Rammarico?
«Mi aspettavo una considerazione diversa, ma non lo dico con arroganza. Anche solo magari un ritiro con i grandi, giusto per mettermi in mostra. A fine anno mi hanno invece proposto di continuare in quella categoria, ma ho rifiutato. All’inizio questa cosa l’ho un po’ subita, poi però mi ha dato ancora maggior carica, uno stimolo più grande, mi sono detto: “Ora faccio vedere loro che si sono sbagliati”».

La voglia, elemento indispensabile.
«La mia è una famiglia molto umile. Papà faceva il muratore e mamma le pulizie. Mi hanno sempre sostenuto ma anche insegnato cos’è il sacrificio, cos’è la fatica. La classica “fame”, quella che ti fa arrivare, la coltivi così. L’ambizione non manca, ma non si può mai mollare. Anche se è ovvio che la strada sia stata lunga e piena di ostacoli. Uscire di casa a 14 anni… è stata durissima. I miei figli non so se riuscirei a farli andar via a quell’età». 

Ai tempi del Lugano saresti stato pronto per la Super League?
«Devo essere sincero? Probabilmente no. Non come lo sono ora almeno, perché comunque l'anno fatto in Challenge League a Bellinzona mi è servito tantissimo. E gli step ci sono perché bisogna farli». 

Dopo Lugano, appunto, Bellinzona.
«In Ticino, dove sono stato con la famiglia, mi sono trovato benissimo. È un territorio al quale mi sento molto legato». 

La gavetta è finita, sei arrivato dove volevi?
«Da piccolo c’era questo sogno di giocare in Serie A, ora ci sono e devo ammettere che non avrei mai pensato di riuscirci. Detto questo, non so come andrà ma spero di non fermarmi qui. L’idea è quella di fare uno-due anni a questo livello e poi salire ancora. L’italia, la Germania…».

In Italia hai vestito anche la maglia delle selezioni giovanili prima di virare, dall’U21, sul Kosovo. Scelta di cuore o perché consideravi chiusa la porta azzurra?
«È stato il richiamo delle radici. Mi sento anche tanto italiano, come d’altronde lo è la mia compagna. Da piccolo non ragionavo in questo modo ma crescendo… In famiglia parliamo sempre kosovaro e il sangue è quello».

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