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LUGANODalle case popolari ai trionfi, Melandri si racconta: «Oggi è un po' diverso, per i talenti è ancora più dura»

10.11.22 - 07:00
Macho Melandri: «Il mio babbo faceva due lavori per cercare di darci il massimo: è lui il mio eroe».
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Dalle case popolari ai trionfi, Melandri si racconta: «Oggi è un po' diverso, per i talenti è ancora più dura»
Macho Melandri: «Il mio babbo faceva due lavori per cercare di darci il massimo: è lui il mio eroe».
«Piloti scaramantici? Lo si diventa. Una volta mi presentai a una gara con i capelli viola. Correvo col numero 13 ed era venerdì 17. Potete immaginare come andò a finire…».
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LUGANO - Dai quartieri popolari di Ravenna alla vetta del mondo, toccata già a 20 anni nella terra dei canguri, quando a Phillip Island conquistò il titolo di campione della classe 250. È la storia di Marco Melandri, oggi 40enne, ex primattore del motorsport con alle spalle 416 gare (215 nel Motomondiale, 201 in Superbike), impreziosite da 44 vittorie e 137 podi.

Dopo una vita a mille all’ora passata a sgommare in giro per il globo, il centauro italiano ha “scoperto” il Ticino e vi sta mettendo le radici. «Qui ho trovato un’isola felice, un compromesso ideale anche per il bene di mia figlia, alla quale voglio dare il miglior futuro possibile in un posto in cui i bambini possono ancora crescere come tali», ci spiega “Macho” Melandri, che abbiamo incontrato al FitLab 2.0 di Lugano, centro fisioterapico specializzato anche nel lavoro con gli sportivi d’élite 

Nel 2020 l’ultima recita di un talento che, senza grandi possibilità economiche, si è fatto strada tra i big esordendo nel Motomondiale a Brno all’età di 15 anni. Chi sono state le persone più importanti della tua carriera?
«Sicuramente i miei familiari. Mio padre era un grande appassionato e la moto ha sempre fatto parte della mia vita. Poi fu decisivo l’incontro con l’ex pilota Loris Reggiani, che mi aiutò anche economicamente. Ho avuto fortuna. Mi ha dato tutto e nell’arco di un anno mi sono ritrovato catapultato tra i professionisti. Una parabola del genere, al giorno d’oggi, non credo sia più realizzabile. I costi sono esplosi e gli sponsor sono quasi scomparsi. Di conseguenza i talenti fanno tantissima fatica a emergere, mentre i cosiddetti "figli di papà” hanno più possibilità. Poi certo, ce ne sono anche di bravi».

In tanti, sportivi e non, crescono con un mito. Un eroe. Chi è il tuo?
«A 4 anni persi mia mamma. Il babbo si rimboccò le maniche e faceva due lavori per cercare di darci il massimo. Spazzino alla mattina e idraulico nel resto della giornata. Poi, quando lavorava, i nonni sono stati vicini a me e mia sorella. Questi sono i miei eroi. A livello motoristico invece ne ho diversi. Non parlo solo di chi vinceva, ma anche di chi attirava la mia attenzione per delle particolari qualità, oppure dei protagonisti di accese rivalità».

A tal proposito, chi è stato il tuo più grande rivale?
«Forse questa risposta vi sorprenderà, ma dico me stesso… Tante volte non ho saputo tirar fuori il massimo, mentre in altre non sono riuscito a fare le scelte che avrei dovuto e voluto. Negli ultimi dieci anni di carriera ho cambiato otto team e otto moto. La continuità è fondamentale per riuscire a crescere. Questo è stato il mio limite più grande. Dopodiché, in pista, indicherei sicuramente Sakata e Manako in 125, il compianto Kato e Harada - altri due giapponesi - in 250. Nella classe regina invece c’era Rossi e nel mondiale 2005 arrivai secondo alle sue spalle».

Per l’Italia, che nel weekend ha festeggiato il trionfo di Pecco Bagnaia nella classe regina (mancava da quello del Dottore nel 2009), quelli erano anni d’oro. Con quattro moschettieri sempre pronti a darsi battaglia.
«Io, Rossi, Biaggi e Capirossi… quanti ricordi. In quegli anni in Italia le moto le vedevi ovunque in tv. Anche chi non era appassionato, le guardava per forza (ride, ndr). Rossi poi era un catalizzatore. Ha portato talmente tanto a tutto l’ambiente che anche i media erano un po’ “schierati”. Faceva comodo a tutti e per noi rivali non era semplicissimo. Eravamo comunque molto diversi tra noi e penso che abbiamo regalato delle belle emozioni. Ora è un po’ diverso. Nonostante le splendide performance di Bagnaia e Bastianini, tra la gente “comune” - quella che non segue tutte le gare - sono meno conosciuti. Forse è anche questione di carisma, manca un po’ il personaggio».

Sei ancora in contatto con quei grandi rivali?
«Ogni tanto sento Capirossi, mentre con Rossi sono in buoni rapporti ma lo sento meno. Da ragazzi con Vale eravamo molto amici, poi negli anni della MotoGP ci siamo allontanati. Il nostro è uno sport un po’ particolare. Quando si ha lo stesso obiettivo e la posta in gioco è così alta, si diventa anche un po’ egoisti. Biaggi invece lo conosco poco, è molto schivo. Ci ho corso contro ma non ci ho quasi mai parlato». 

Oltre 20 anni di gare conditi da gioie e dolori. Quali sono i ricordi più belli e quelli più brutti?
«Il Mondiale vinto resta il più bello. Anche per il pazzo epilogo nel duello con Nieto a Phillip Island. Poi metterei le prime vittorie in MotoGP e Superbike. Risollevarsi è sempre importante, ti dà confidenza e autostima. Tra i momenti più brutti il Mondiale perso per un punto nel ‘99. Oppure nel 2012 in Superbike. A tre gare dalla fine andammo in testa al Mondiale con BMW, ma poco dopo - nei box - ci comunicarono che avrebbero chiuso il team. Fu uno shock, un delirio. Era settembre e le squadre erano già a posto per la stagione seguente. Potete immaginare la disperazione dei meccanici. Andò tutto a rotoli, nessuno pensava più a correre e abbiamo buttato nel ce*** un Mondiale che sembrava vinto».

Come pilota eri scaramantico?
«Bella domanda… (ride, ndr). Non lo ero, ma lo si diventa. Nel ‘99, nella prima gara dell’anno, avevo i capelli viola, correvo col numero 13 ed era un venerdì 17. Potete immaginare come andò a finire. Per un problema banale alla moto caddi e mi ruppi un polso. Persi praticamente un Mondiale. Nel 2001 passai sotto una scala. Mi avevano sempre detto di evitare, ma nemmeno ci pensavo. Due giri di gara e mi “giocai” una spalla. Da lì iniziai a rifletterci. Cambiai numero e capelli viola addio. Nel 2012 poi mi attraversò la strada un gatto nero mentre tornavo in hotel. Lì andò diversamente. Dopo un’ora d'attesa - non volevo passare - dovetti desistere e rientrai nel mio alloggio. A quel punto cercai di capire i motivi di quella credenza popolare. Informandomi scoprii che in realtà i gatti neri sono più "resistenti" degli altri e portano bene. Me ne convinsi e il giorno dopo vinsi la gara. Tutto questo può far capire quanto sia importante l'aspetto mentale anche nel motorsport».

Volgendo lo sguardo alla MotoGP attuale, chi sono i tuoi piloti preferiti?
«Come stile di guida dico Bagnaia, Quartararo e Martin. Quasi strisciano le spalle e fanno paura. Detto questo, credo che Marquez sia una bestia. È di un altro livello e ha sempre fatto la differenza con la Honda. Ti sorprende sempre. Il prossimo anno, se resta integro, si giocherà il titolo».

Ai tuoi tempi il Mondiale si correva su 17-18 gare. Il prossimo anno saranno 21.
«Con tutti gli spostamenti diventa anche pericoloso. Non tanto per l’effetto sui piloti, ma per i team. Penso agli autisti, ai meccanici, eccetera. Se vanno avanti così, serviranno due squadre. Un meccanico lavora dieci o dodici ore e poi mette le mani nei freni. Sembra banale, ma non c’è margine d’errore».

Nel presente di Melandri, oltre al Ticino, ci sono ancora le due ruote, ma a pedali. 
«Faccio gare di Enduro con le MTB elettriche, è una passione arrivata un po’ per caso. Mi piace perché pratico sport senza stress, ma c’è comunque tanta adrenalina - l’80% è discesa - e mi permette di vedere posti nuovi, scoprendo la natura. In realtà mi potete incontrare anche in strada, ma lì - per una volta - vado piano dappertutto e anche in Ticino capita che qualche automobilista mi strombazzi... (ride, ndr)».

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