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CANTONEFabio Andina, riflessi dalla Beat Generation

21.07.16 - 11:00
Reduce dalla pubblicazione del primo romanzo “Uscirne fuori” (Adv, 2016), con “Leontica” lo scrittore ticinese Fabio Andina si è aggiudicato una menzione al Premio Chiara Inediti 2016
Fabio Andina, riflessi dalla Beat Generation
Reduce dalla pubblicazione del primo romanzo “Uscirne fuori” (Adv, 2016), con “Leontica” lo scrittore ticinese Fabio Andina si è aggiudicato una menzione al Premio Chiara Inediti 2016

LUGANO - «Andina è originale sia nello stile, sia nel contenuto - si legge nel comunicato divulgato dal Premio Chiara negli scorsi giorni - Il suo linguaggio, con una morfosintassi di stampo espressionista, ricorda gli autori della Beat Generation: scrittura a flusso, uso del “che” polivalente, influenza del parlato. L’autore è molto bravo a tratteggiare i suoi personaggi, in una serie di racconti che – ambientati in un piccolo paese – mostrano una galleria di ritratti memorabili».

Questo è Fabio Andina, classe 1972, malcantonese, laureato in Cinema alla San Francisco State University. Undici anni fa ha dato alle stampe la sua prima raccolta di poesie, “Ballate dal buio” (Edizioni Ulivo, 2005), che fu molto apprezzata anche da Fernanda Pivano.

Fabio, raccontami “Leontica”...

«A Leontica ho una baita da un bel po’ di tempo. Ci sono sempre andato per vacanza, e qualche anno fa ci ho vissuto per quasi tre anni, dopo che dovetti lasciare il tetto coniugale. “Leontica” è una raccolta di 28 racconti: ognuno parla di un personaggio diverso, anche di un mulo. Ho scelto Leontica perché i personaggi di quel paesello mi hanno sempre affascinato già da quando ero bambino. Poi, vivendoci assieme per quasi tre anni, mi sono entrati dentro. Soprattutto alcuni anziani. Tante sono persone inchiodate agli anni del dopoguerra, di poche necessità, di poche parole, senza troppi fronzoli, grezze, ruvide e dure come il granito delle montagne. Ma persone vere, leali, sempre pronte a farsi in quattro, vicine alla natura, alle stagioni. In “Leontica” racconto soprattutto le vite di contadini alcolizzati, di donne pie sempre pronte a correre in chiesa, di una barista che vive di sesso, ma anche della nuova generazione che incalza, in profondo contrasto con quella vecchia. La metà dei personaggi sono inventati, anche se gli aneddoti sono veri, magari non necessariamente legati a Leontica, ma aneddoti del mio vissuto. Non avrei mai scritto questi racconti se non fosse stato per un amico che ha insistito un po', convincendomi, poi, a partecipare al Premio Chiara. A metà aprile ero preso per il mio romanzo “Uscirne fuori”, che era appena stato pubblicato e a quell’amico dissi che non avevo racconti da proporre. Nel mio cassetto avevo solamente alcuni romanzi, inediti, ma non racconti brevi. Ma quel mio amico mi convinse, e in una decina di giorni raggiunsi l'obbiettivo di mettere nero su bianco le 80 cartelle minime richieste. Il termine della consegna era il 2 maggio a mezzogiorno e quella mattina stavo ancora impaginando, stampando e bucando le sei copie, che poi rilegai in un’edicola di Marchirolo, prima di consegnarle, alle 11, all'ufficio del Premio Chiara a Varese. Un’ora dal termine».

Ti ha sorpreso la menzione?

«Mi ha sorpreso. Avevo paura che il mio stile di scrittura spontanea “sparato fuori in pochi giorni” avrebbe fatto rabbrividire la giuria. Invece, ha apprezzato...».

Quando vedremo i racconti nero su bianco?

«Spero presto, ma per ora non ho ricevuto nessuna proposta di pubblicazione. Spetta a me, grazie all'aiuto dei giornalisti e della critica, farmi conoscere. Non è semplice, so che devo fare la gavetta, fare letture, rompere le scatole, affinché esca un articoletto...».

Il tuo stile di scrittura, è stato sottolineato più volte, ricorda gli autori della Beat Generation… Ti riconosci?

«Sia nella raccolta di poesie intitolata “Ballate dal buio” (Edizioni Ulivo, 2005), come nel romanzo “Uscirne fuori” (ADV, 2016), ed ora coi racconti “Leontica”, la critica mi ha sempre “etichettato” come uno scrittore Beat. Certi mi avvicinano a Bukowski, che con la Beat non ha e non voleva aver niente a che fare. Sono vent’anni che scrivo. Ho iniziato, come molti scrittori, con le poesie, per poi passare alla scrittura di romanzi, di sceneggiature e ora, per necessità e grazie a quel mio amico, di racconti brevi. Ho iniziato a scrivere quando ho lasciato il vecchio mondo nel 1995 per approdare in quello nuovo, in California. Tre anni a San Diego e altri tre a San Francisco. In California mi sono innamorato, ho letto e all'università ho studiato la Beat. Un professore di psicologia mi ha aperto quella porta, dopodiché ho conosciuto Lawrence Ferlinghetti, che me l'ha spalancata. Ci incontravamo spesso al suo City Light Book Store e al Vesuvio Café a San Francisco. Ferlinghetti ha letto le mie poesie, quelle che poi pubblicai anni dopo in “Ballate dal buio”. A lui non piacevano nel contenuto, troppo lugubre a suo modo di vedere, ma gli piaceva lo stile. Ricordo che mi fece leggere una poesia che aveva appena scritto a mano sul retro di una busta: parlava di un uccello che vola alto nel cielo, sopra il mare. Mi disse che in troppi scrivono poesie tristi, e lui, le vuole scrivere allegre. Mi riconosco nella Beat, nello stile letterario. Non nel resto. Non nel modo di vivere dei protagonisti. Credo che lo stile mi abbia influenzato da subito, anche perché ero pronto ad accoglierlo, a farlo mio. Come due pezzi di puzzle che si incontrano e subito si incastrano». 

Quali gli scrittori, i poeti, che più ti hanno influenzato?

«A parte gli scrittori della Beat, citerei Bukowski, il suo essere vero, non costruito. Di recente Cormac McCarthy, il suo essere essenziale, minimalista».  

Hai mai avuto modo di incontrare Fernanda Pivano?

«Alla Pivano spedii “Ballate dal buio”, quando uscì nel 2005, spiegandole che quelle poesie le aveva lette anche Lawrence Ferlinghetti qualche anno prima. In quelle poesie parlo anche di San Francisco, della Beat, della morte di Ginsberg e dell'incontro con Ferlinghetti. Ci scambiammo delle mail: a Fernanda Pivano piacevano le mie poesie e per un po' cercò di farmi entrare in contatto con dei giornalisti. Si firmava sempre "Fernanda Pivano, pace e amore". L'ultima mail la conservo incorniciata. Rimpiango di non essere mai riuscito a incontrarla di persona».

Quanto influisce la settima arte sul tuo stile di scrittura?

«Il leggere e l'imparare a scrivere sceneggiature, più che il guardare film, mi ha aiutato parecchio nel mio processo di scrittore. Soprattutto un corso che presi da uno sceneggiatore abbastanza conosciuto, che mi insegnò a scrivere un film di 120 minuti, cioè 120 pagine, in 24 ore. Non ci vuole solamente tanto caffè, ma anche tante tecniche specifiche. Questo insegnamento me lo sono fatto mio e, assieme all'amore per la scrittura spontanea dell Beat, l'ho elaborato e ci ho creduto. Io, quando scrivo, riesco a mettere nero su bianco decine di pagine in un solo colpo, magari senza punteggiatura e da nota 2 in analisi grammaticale».

Lo scorso mese di febbraio hai pubblicato “Uscirne fuori” (ADV), romanzo di esordio in cui ti inoltri nel complesso tema del divorzio… Una necessità parlarne? Uno sfogo? Una condivisione?

«Azione catartica. Stavo vivendo il divorzio, lo stavo vivendo male, e vivevo da solo in baita a Leontica, dopo essere stato cacciato dal tetto coniugale, lasciando mio figlio, allora di soli sei anni. “Uscirne fuori” è un romanzo di 150 pagine che scrissi in 10 giorni. Poi lo chiusi nel cassetto. Intanto scrivevo altro. Poi, l'estate scorsa l'ho rispolverato, e un amico scrittore mi disse di spedirlo a Mauro Valsangiacomo, editore della Alla Chiara Fonte di Lugano, che stava collaborando con la ADV per una nuova collana di romanzi di scrittori ticinesi. Gli piacque, e nel giro di alcuni mesi era in libreria».

Adesso tu e tuo figlio siete riusciti a uscirne fuori?

«Io e mio figlio stiamo ancora uscendone fuori, anche se ora, dopo quasi sette anni di battaglie legali, siamo quasi alla frutta».

 

 


 

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