Dai Sottotono ai dischi con Fabri Fibra e Giorgia. E ora, uno dei maestri rap italiano svelerà il suo Me.To.Do. Lo abbiamo intervistato
MILANO - «I primi tempi dei Sottotono, con Tormento, erano bellissimi. Tradimento, il primo disco con Fibra, è stato fantastico perché ci capivamo anche senza parlare. Il disco che ho fatto con Giorgia. Cosa ti posso dire di Giorgia? È un extraterrestre, ha una voce che è “senza senso”. Jake La Furia è un genio. Guè è una macchina da guerra. È fondamentale nell’Hip Hop italiano. Marracash è fortissimo. È un poeta».
E la lista potrebbe proseguire a lungo, perché Big Fish - al secolo, Massimiliano Dagani - in oltre trent'anni di carriera ha condiviso lo studio con tanti giganti della musica italiana. In particolare, della scena rap. Un tempo nicchia, oggi è una piazza enorme. Eppure lui, tra i primi a portare quella scena alla luce del sole, non si appunta al petto alcuna medaglia. «Solo passione, è quella che ti porta avanti». E ora, che nel suo curriculum andrà ad aggiungersi anche la qualifica di "docente", abbiamo colto l'occasione per fare una chiacchierata con lui.
Oggi, anche in Italia, il rap è diventato un mercato enorme. Ma ha pagato un prezzo, perdendo qualcosa a livello di identità. Perché un tempo il suono era una firma. Oggi invece prevale la corsa al suono che va per la maggiore. C'è una "cultura" dell'hype per cui tutto ciò che esce è bello, anche se una settimana dopo viene dimenticato. E poi c'è la gabbia dello streaming e dei suoi numeri. È una grossa bolla che appiattisce non tutto ma quasi...
«Il grosso problema è stato il cercare di diventare “industry standard”. Ed è una situazione che da un lato ti dà il sapore di riuscire a fare cose che funzionano, ma allo stesso tempo il tutto svanisce in fretta. Come se fosse una droga, che ti dà euforia ma che devi continuamente prendere. Una volta, i dischi duravano mesi. E poi c’era quello che durava tutto l’anno, quello che aveva i singoli giusti. Ti faccio un esempio. Prendi un “producer album”, tipo quello di Sick Luke, che è bravissimo. Lui si fa un mazzo tanto per due anni e poi rimane in classifica una settimana. Ma perché? Perché c’è la possibilità di fruire la musica in modo veloce e da parte di tutti. Una volta o ascoltavi il singolo in radio o ti compravi il disco. Adesso invece, che tu abbia un abbonamento premium o meno a Spotify, il disco te lo ascolti comunque non appena esce. È più facile accedere alla musica ma è più difficile fare un disco longevo. È cambiato il modo di fruizione della musica e gli artisti hanno cambiato il modo di proporla».
E come si fa a far scoppiare questa bolla?
«Le regole si rompono avendo voglia di rischiare. Altrimenti si rimane incollati sempre allo stesso modo di lavorare».
È una musica “ostaggio” degli algoritmi. Restando sulla tecnologia. Un tempo anche i limiti tecnologici erano uno strumento; oggi invece siamo al punto in cui bisogna fare i conti con l’intrusione dell’intelligenza artificiale. Tu come la vedi? Opportunità o insidia?
«Per me, sono sincero, è una grossa opportunità. Come quando c’è stato il passaggio dall’analogico al digitale. Perché io i primi dischi li ho fatti con il nastro. Con il campionatore. Le voci si registravano su nastro. Non potevamo pensare di fare delle registrazioni che fossero tagliate e cucite come ora. Era impensabile. Hai presente i primi dischi dei Sottotono? Ecco. Oggi un ritornello lo fai e poi, banalmente, lo copi. Una volta invece campionavamo i ritornelli per poi mandarli a tempo sul nastro. Ed era bellissimo. Era entusiasmante. Perché c’era dell’anima in quel modo di lavorare. Oggi non lo fai più. La tecnologia ci ha portato tanti giovamenti ma poca anima. Detto questo, io ho provato a fare alcune cose con l’intelligenza artificiale e sono impazzito. È sconvolgente quello che si può fare. È vero che toglie il fattore umano da tutto. Ma ti dico: se il fattore umano deve essere quello di attenersi alle regole allora è meglio che lo faccia l’intelligenza artificiale».
Regole che finiscono per essere catene…
«Chi rincorre a tutti i costi l’industry standard finisce per essere succube rispetto a quello che, secondo loro, l’industria vuole. Quando in realtà nessuno, neanche l’industria stessa, sa cosa vuole. Per questo ho deciso di intraprendere la strada di Me.To.Do».
Ecco, mi hai anticipato. Questo nuovo laboratorio da che necessità nasce?
«Sai, ci sono tanti ragazzi che avrebbero la possibilità di provare, di crescere, di diventare… Non dico per forza innovativi, ma creativi, quello sì. E invece si limitano a entrare in quei meccanismi. Ormai, per molti fare musica è diventato l’equivalente di quello che, per quelli della mia generazione, era l’essere “paninari”. Capisci? Tutti si mettevano addosso quelle marche per essere parte di quella cosa. E chi si metteva qualcosa d’altro, era una mosca bianca. E oggi c’è un sacco di paura nell’essere delle mosche bianche».
Con te in questo progetto ci saranno anche Marco Zangirolami ed Ensi…
«Sì. E poi ci saranno alcuni discografici che verranno ad ascoltare il lavoro dei ragazzi. Ho voluto fortemente farlo perché, a mio avviso, le scuole che insegnano la materia sono super ma sono molto didattiche e teoriche. Io invece voglio che i ragazzi possano venire nel posto in cui succedono le cose. Nel mio studio. Dove ci sono stati Fabri Fibra, Emis Killa, Elisa, Giorgia, Tormento e tanti altri. Voglio che i ragazzi vengano a vivere quella cosa. Anche il “profumo” dello studio. E il criterio fondamentale sarà la condivisione. Perché credo di aver molto da imparare dai ragazzi. Non mi sento come quello che sta al di sopra degli altri. Io porterò la mia esperienza. Anche quello che ho sbagliato. Perché ti dico, ed è molto importante: io ho fatto sì molti successi, ma ho fatto anche altrettanti insuccessi. Anzi, forse anche di più».
E l’idea, immagino, sia quella di un progetto a lungo termine...
«Inizieremo con cinque ragazzi, perché vogliamo avere il tempo di focalizzarci al massimo su ognuno di loro. Dopodiché, io vorrei farne un paio all’anno di questi workshop, che sono di cinque mesi».
Si sono fatti avanti in molti?
«Sì, infatti abbiamo dovuto scegliere. Perché per cinque posti abbiamo ricevuto quasi trecento candidature. E magari qualche ragazzo ci è rimasto male, anche se non è stato un “no” ma un “sentiamoci più avanti”. Ma come ti dicevo, non me la sentivo di prenderne più di cinque».
Un’ultima domanda, citando Giorgia. «E poi?» Su cos’altro sta lavorando Big Fish?
«Ma no, io ormai sono vecchio (ride.). No, scherzo... Diciamo che qualche progetto su cui sto lavorando che, mi auguro, mi porterà a fare qualcosa di interessante. Speriamo. L'importante è avere l'idea. Senza le idee non ha senso fare nulla».