Il presidente dell'Udc Marco Chiesa in pressing sul governo. Dai vaccini alla protezione degli anziani: «Troppi errori»
Il ticinese boccia l'Ufsp su tutta la linea, e punta il dito contro Berset: «Il lockdown risolve il problema solo temporaneamente. E mette a rischio posti di lavoro e il benessere complessivo della popolazione».
LUGANO/BERNA - I lockdown scaldano gli animi, si sa. E nelle ultime settimane l'animo di Marco Chiesa si è acceso più del solito. Il presidente dell'Udc ha alzato i toni anche con il ministro Alain Berset, in un recente incontro: «Le misure adottate e la loro comunicazione in questa seconda ondata - afferma senza giri di parole - sono confuse e poco trasparenti».
Come vanno i rapporti con Berset?
«C'è rispetto dei reciproci ruoli. Ma non posso nascondere la mia delusione. Sono emerse importanti criticità, che meritavano un confronto schietto».
Ad esempio?
«Non si è stati in grado di formulare un concetto di protezione dei gruppi a rischio. Abbiamo assistito al flop del contact-tracing. Si sono chiusi i ristoranti con piani di sicurezza ma si sono lasciati circolare mezzi pubblici affollati. Senza dimenticare il siparietto sulle mascherine, bollate in un primo momento come inutili».
La campagna vaccinale, almeno, è un dato positivo.
«Non direi. Solo settimana scorsa, Berset se l'è presa personalmente con i cantoni "lenti" nel vaccinare. Adesso comunica che mancano le seconde dosi. Possiamo attenderci di più dalla Svizzera senza paragonarci per forza a Israele che ha vaccinato quasi il 40% della popolazione contro il nostro 2%».
Il semi-lockdown in compenso ha frenato i contagi.
«Le misure drastiche possono essere efficaci a breve termine, a lungo termine - come diceva Daniel Koch – è tutt’altro che chiaro, basta dare un occhio ad altri Paesi. Di certo, stiamo pagando tutti un prezzo enorme. Dal punto di vista sociale e psicologico, oltre che in termini di posti di lavoro».
C'è chi accusa la destra di mettere l'economia al primo posto.
«Al primo posto viene la salute. Non si discute. Ma il lockdown non è l'unica soluzione: ci sono possibilità tecniche come i test rapidi, un contact tracing funzionante e la telemedicina, che ha dato degli ottimi risultati in Ticino. Oltre ai controlli alle frontiere».
A proposito di Ticino. Come valuta l'operato del Consiglio di Stato?
«Il Canton Ticino si è mosso bene durante la prima ondata pandemica. Ha fatto valere le sue ragioni ed è intervenuto quando lo ha ritenuto necessario anche contrapponendosi a Berset. Ora la palla però è pressoché completamente nel campo della Confederazione. E ne dobbiamo solo prendere atto, purtroppo».
C'è stato un processo di consultazione.
«Le consultazioni sono diventate degli esercizi alibi. I Cantoni non vengono ascoltati, neppure di fronte a una maggioranza chiara. È demotivante, immagino non solo per me: le decisioni del Consiglio federale si possono leggere su alcuni media, sempre gli stessi, ancor prima della seduta di governo e neppure a consultazioni concluse».
Diceva delle frontiere: di recente ha firmato una lettera con tutti gli altri presidenti di partito, per chiedere più controlli.
«Non è certo sorprendente la mia posizione ma quella dei colleghi. Mi fa piacere che questa rivendicazione di lungo corso da parte dell’UDC si sia trasformata in un intento comune. Nessun Paese oggi prende alla leggera la diffusione della pandemia tra Stati. In particolare perché alcuni di essi sono nuovamente sotto pressione malgrado le chiusure ordinate e prolungate. È ragionevole, anzi doveroso, che anche la Svizzera, che sta vivendo una diminuzione dei casi, metta in atto le precauzioni che ritiene necessarie per la salute dei propri cittadini».
Tornando all'economia: le imprese invocano aiuti.
«La Confederazione ha finora agito rapidamente, con interventi importanti. È giusto: chi comanda, paga. A breve sarà necessario un nuovo credito di una decina di miliardi. Stiamo parlando di 6 milioni di franchi all'ora. E dovranno arrivare in tempi brevi e senza burocrazia».
Basteranno?
«Non dobbiamo farci illusioni. Al termine della pandemia, dovremo affrontare una crisi economica globale probabilmente peggiore di quella del 2008. Si perderanno posti di lavoro. Io credo che la Svizzera abbia i mezzi per uscirne bene. Ma dovranno entrare in gioco investimenti pubblici e privati e, mi si permetta, anche una sana politica di preferenza indigena».