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INTERVISTA«Senza regole, solo violenza». Fulvio Bernasconi parla del suo film, ieri in concorso

06.08.07 - 09:04
«Senza regole, solo violenza». Fulvio Bernasconi parla del suo film, ieri in concorso
Unica presenza svizzera nell’ambito del concorso internazionale, Fuori dal­le corde del regista ticinese Fulvio Bernasconi ha occupato ieri pome­riggio l’ambita casella di proiezione domenicale al palazzetto Fevi. Prodot­to da Ventura film di Meride con la coproduzione di ITC Movie, Bianca Film, RTSI – SSR SRG idée suisse, Ar­te e Rai Cinema, il lungometraggio è stato girato quasi interamente a Trie­ste ed è interpretato da Michele Veni­tucci, Maya Sansa e Juan Pablo Ogal­de. Dopo il suo telefilm La diga (2003) e diversi cortometraggi per la televi­sione, Fulvio Bernasconi firma così il suo primo lungometraggio per il cine­ma. Lo abbiamo intervistato.

L’ INTERVISTA

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Nel suo film la boxe assurge anche a metafora della società: si può dire che il protagonista, Mike, passi dal­la boxe ufficiale, con regole molto ri­gide ma nella quale è e rimarrà sem­pre perdente, ai combattimenti clan­destini, mondo senza regole dove si gioca il tutto per tutto?

«Sì, è uno dei temi che percorro­no il film:la necessità di avere re­gole che modellino i nostri com­portamenti sociali. Senza regole, la legge del più forte non può che far uscire i nostri istinti più bruta­li e apre la strada alla barbarie. Questa è la contrapposizione che si disegna tra la boxe e questi combattimenti violenti e illegali. Il mio non vuole essere un film politico ma questo discorso con­tro l’ultraliberismo è presente nella storia».

La boxe è anche il soggetto di un ge­nere filmico molto importante. Come si è posto di fronte a questo fatto?
«Non ho preso nessun film come guida, però mi son visto tanti film di boxe, quasi tutti:dai più celebri come Toro scatenato a quelli di Jean-Claude Van Damme. Ho sempre pensato però che il mio progetto avesse l’originalità di trattare non tanto della boxe quanto dei combattimenti clan­destini e quindi non ho sentito troppo timore reverenziale nei confronti di questo genere di ci­nema ».

Come ha concepito il modo di filma­re i combattimenti?
«Durante tutto il film la macchi­na da presa è molto vicina ai per­sonaggi. Per quel che riguarda i combattimenti, man mano che Mike cade in questa situazione di barbarie, la macchina da presa si allontana da lui. Ad esempio, il combattimento che si svolge den­tro la gabbia è ripreso dall’ester­no. Ci riavviciniamo a lui alla fi­ne, quando in un certo senso si redime. Per quel che riguarda i combattimenti avevamo un co­ach molto bravo che ha lavorato a lungo con gli attori. Tutti sape­vano sempre esattamente cosa fare, e ciò era fondamentale so­prattutto per evitare incidenti».

Dal punto di vista delle ambientazio­ni, ci sono molte scene notturne, qua­si buie. Come mai?
« È un film che va verso l’oscuri­tà, anche dell’anima, e il buio che circonda i combattimenti vuol re­stituire questa dimensione sullo schermo».

La raffigurazione che dà del mondo dei combattimenti clandestini si può dire sia realistica, oppure la realtà è ancora peggiore?
«Ho effettuato ricerche molto ap­profondite in questo mondo: si va dall’incontro di boxe normale ma senza arbitro a combattimen­ti dove invece si staccano le dita a morsi. Il motore principale per i giovani che vi partecipano è la di­sperazione per i soldi, ma anche la necessità di affermarsi, seppu­re in un modo paradossale, as­surdo e autodistruttivo».

Dopo che Mike rompe i contatti con la sorella, entra in scena Ramirez (in­terpretato da Juan Pablo Ogalde), che in un certo senso la sostituisce. Com’è nato questo personaggio?
«È ispirato a un vero pugile ar­gentino che abbiamo visto com­battere a Milano e si comportava un po’ allo stesso modo: corag­giosissimo, ma senza curarsi del­le botte che prendeva. Una spe­cie di masochista del ring».

Qual è l’aspetto più saliente della fi­gura del pugile, quello che l’ha convin­to a fare un film su uno di loro?
«Ne ho conosciuti molti e devo dire che hanno quasi sempre un aspetto puro, apparentemente ingenuo, ma emanano anche una certa “saggezza”: sono mol­to coscienti del proprio corpo, della propria identità. Non ho mai visto nei pugili quella legge­rezza che si trova ad esempio in certi calciatori, anche perché fanno una vita dura, che li tem­pra, seguono una disciplina qua­si monacale dettata dall’allena­tore che è una sorta di maestro di vita. Il pugilato, se lo pratichi seriamente, vuol dire esserci dentro 24 ore al giorno, non so­lo quando sei sul ring».
 
Antonio Mariotti
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