06 ago 2007 - 09:04 Aggiornamento 29 ott 2014 - 02:19 0
«Senza regole, solo violenza». Fulvio Bernasconi parla del suo film, ieri in concorso
Unica presenza svizzera nell’ambito del concorso internazionale, Fuori dalle corde del regista ticinese Fulvio Bernasconi ha occupato ieri pomeriggio l’ambita casella di proiezione domenicale al palazzetto Fevi. Prodotto da Ventura film di Meride con la coproduzione di ITC Movie, Bianca Film, RTSI – SSR SRG idée suisse, Arte e Rai Cinema, il lungometraggio è stato girato quasi interamente a Trieste ed è interpretato da Michele Venitucci, Maya Sansa e Juan Pablo Ogalde. Dopo il suo telefilm La diga (2003) e diversi cortometraggi per la televisione, Fulvio Bernasconi firma così il suo primo lungometraggio per il cinema. Lo abbiamo intervistato.
L’ INTERVISTA
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Nel suo film la boxe assurge anche a metafora della società: si può dire che il protagonista, Mike, passi dalla boxe ufficiale, con regole molto rigide ma nella quale è e rimarrà sempre perdente, ai combattimenti clandestini, mondo senza regole dove si gioca il tutto per tutto?
«Sì, è uno dei temi che percorrono il film:la necessità di avere regole che modellino i nostri comportamenti sociali. Senza regole, la legge del più forte non può che far uscire i nostri istinti più brutali e apre la strada alla barbarie. Questa è la contrapposizione che si disegna tra la boxe e questi combattimenti violenti e illegali. Il mio non vuole essere un film politico ma questo discorso contro l’ultraliberismo è presente nella storia».
La boxe è anche il soggetto di un genere filmico molto importante. Come si è posto di fronte a questo fatto? «Non ho preso nessun film come guida, però mi son visto tanti film di boxe, quasi tutti:dai più celebri come Toro scatenato a quelli di Jean-Claude Van Damme. Ho sempre pensato però che il mio progetto avesse l’originalità di trattare non tanto della boxe quanto dei combattimenti clandestini e quindi non ho sentito troppo timore reverenziale nei confronti di questo genere di cinema ».
Come ha concepito il modo di filmare i combattimenti? «Durante tutto il film la macchina da presa è molto vicina ai personaggi. Per quel che riguarda i combattimenti, man mano che Mike cade in questa situazione di barbarie, la macchina da presa si allontana da lui. Ad esempio, il combattimento che si svolge dentro la gabbia è ripreso dall’esterno. Ci riavviciniamo a lui alla fine, quando in un certo senso si redime. Per quel che riguarda i combattimenti avevamo un coach molto bravo che ha lavorato a lungo con gli attori. Tutti sapevano sempre esattamente cosa fare, e ciò era fondamentale soprattutto per evitare incidenti».
Dal punto di vista delle ambientazioni, ci sono molte scene notturne, quasi buie. Come mai? « È un film che va verso l’oscurità, anche dell’anima, e il buio che circonda i combattimenti vuol restituire questa dimensione sullo schermo».
La raffigurazione che dà del mondo dei combattimenti clandestini si può dire sia realistica, oppure la realtà è ancora peggiore? «Ho effettuato ricerche molto approfondite in questo mondo: si va dall’incontro di boxe normale ma senza arbitro a combattimenti dove invece si staccano le dita a morsi. Il motore principale per i giovani che vi partecipano è la disperazione per i soldi, ma anche la necessità di affermarsi, seppure in un modo paradossale, assurdo e autodistruttivo».
Dopo che Mike rompe i contatti con la sorella, entra in scena Ramirez (interpretato da Juan Pablo Ogalde), che in un certo senso la sostituisce. Com’è nato questo personaggio? «È ispirato a un vero pugile argentino che abbiamo visto combattere a Milano e si comportava un po’ allo stesso modo: coraggiosissimo, ma senza curarsi delle botte che prendeva. Una specie di masochista del ring».
Qual è l’aspetto più saliente della figura del pugile, quello che l’ha convinto a fare un film su uno di loro? «Ne ho conosciuti molti e devo dire che hanno quasi sempre un aspetto puro, apparentemente ingenuo, ma emanano anche una certa “saggezza”: sono molto coscienti del proprio corpo, della propria identità. Non ho mai visto nei pugili quella leggerezza che si trova ad esempio in certi calciatori, anche perché fanno una vita dura, che li tempra, seguono una disciplina quasi monacale dettata dall’allenatore che è una sorta di maestro di vita. Il pugilato, se lo pratichi seriamente, vuol dire esserci dentro 24 ore al giorno, non solo quando sei sul ring».