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UCRAINALe garanzie della NATO alle spalle, le bombe di fronte

13.07.23 - 15:30
Cosa è cambiato per Kiev dopo il vertice di Vilnius? Per avere un calendario serve prima la pace. Ma (anche) la guerra non ha una "roadmap"
Reuters
Le garanzie della NATO alle spalle, le bombe di fronte
Cosa è cambiato per Kiev dopo il vertice di Vilnius? Per avere un calendario serve prima la pace. Ma (anche) la guerra non ha una "roadmap"

VILNIUS / KIEV - Il vertice Nato di Vilnius è alle spalle. E se quella di ieri è stata la giornata delle dichiarazioni, a braccetto, a conferma del sostegno sul lungo periodo per Kiev, oggi è invece il turno dei bilanci su quanto si sia effettivamente concretizzato nella due giorni in riva al Neris. Sul fatto che l'Ucraina e la Nato siano più vicine ora di quanto non fossero mai state, c'è poco che si possa aggiungere. Ma, in termini molto concreti, cosa è cambiato per Kiev rispetto a prima?

Di certo, l'Ucraina si aspettava di ottenere di più. Nell'ex repubblica sovietica si sentono ancora oggi gli effetti della "scottatura" del vertice di Bucarest, andato in scena tre lustri or sono. Torniamo per un attimo agli inizi di aprile di quel 2008. Anche in quel caso in agenda figurava la discussione sull'adesione dell'Ucraina all'Alleanza atlantica (contestualmente a quella della Georgia). Non se ne fece, come ben sappiamo, nulla. Anzi, anche peggio. Perché dal summit rumeno la Nato ne uscì in un certo senso "spaccata"; mostrando incertezza, come invece non è avvenuto a Vilnius. All'epoca, gli Stati Uniti - guidati dall'uscente George W. Bush - erano favorevoli per offrire a Kiev una cosiddetta roadmap. Francia, Germania, Italia, Spagna, Paesi Bassi e Belgio tirarono invece il freno. La questione si concluse in modo vago, senza mettere nero su bianco tempi e direzioni su quello che sarebbe stato l'allargamento della Nato.

Quello che accadde in seguito a quel "vuoto" lo ricordiamo tutti. Solo pochi mesi dopo, nell'agosto 2008, Vladimir Putin - che era presente a quel summit - ordinò quella che è passata alla storia come la seconda guerra in Ossezia del Sud. Nel 2014 arrivò il turno della Crimea. Chiusa la parentesi. Torniamo al presente. Una roadmap, che era il risultato più ambito da Kiev - come ben dimostrano le dichiarazioni, ora del presidente Volodymyr Zelensky, ora del ministro degli Esteri Dmytro Kuleba -, non è arrivata neanche in questo caso. E non poteva essere altrimenti. Scartata a priori l'ipotesi di un invito diretto - che avrebbe significato, di riflesso, l'entrata in guerra della Nato con Mosca -, anche l'eventualità di presentare all'Ucraina uno scadenzario che non sarebbe stata in grado di rispettare era quantomai scivolosa. Da qui, la volontà - compatta e ribadita congiuntamente dai leader del G7 - di continuare a ossigenare, fino a quando sarà necessario, il muscolo della resistenza ucraina con un costante flusso di soldi, armi ed equipaggiamento. Più le necessarie garanzie di sicurezza; già indicate dal Cremlino come una «minaccia».

È una decisione che ha messo a tacere - o, perlomeno, scacciato in seconda fila - i mugugni di insoddisfazione che Kiev ha intonato a cornice della prima metà del vertice lituano. Zelensky ha riconosciuto come «un successo» quanto tracciato a Vilnius. Più nel concreto, l'Ucraina ha portato a casa una promessa più solida rispetto al passato. Una volontà di intenti che va in una direzione delineata. Ma che, prima di ogni altra cosa, passa per la pace in Ucraina. E anche qui di "roadmap" non se ne vedono ancora.

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