Ogni anno spesi 4,2 miliardi di franchi per colpa dello stress da azienda. È l’era del burnout. La psicologa del lavoro Raffaella Delcò: «Manca la cultura del feedback positivo»
BELLINZONA - Ben 4,2 miliardi di franchi all’anno. È la stima dei costi generati dallo stress d’azienda in Svizzera, secondo uno studio promosso dalla Segreteria di Stato dell’economia. Un quadro tremendo, se si aggiunge che, secondo una ricerca dell’OCSE, le domande presentate per infermità psichiatrica nella Confederazione si aggirano attorno al 40%. In Ticino 5'800 persone hanno una rendita per invalidità mentale. Circa il 40% della totalità dei beneficiari. «E spesso – sottolinea Raffaella Delcò, psicologa del lavoro e vicepresidente dell’Associazione svizzera psicologi – il lavoro rappresenta una concausa importante».
Signora Delcò, cosa sta succedendo?
«Negli ultimi decenni si registra un grosso aumento di persone vittima di burnout. Uomini e donne esaurite totalmente. E per cui i tempi di recupero variano da diversi mesi ad addirittura molti anni».
Perché si arriva a questo?
«Secondo gli esperti le cause che hanno un forte impatto sul livello di benessere sono tre: una condizione di lavoro in cui il collaboratore riceve istruzioni imprecise, il fatto di dovere essere disponibili anche durante il tempo libero e la “dissonanza emotiva”».
Gli esperti sostengono anche che nelle grosse aziende il dipendente fa sempre più fatica a rintracciare il valore del proprio contributo.
«È così. E le continue riorganizzazioni lo obbligano a vivere la percezione di dovere ricominciare tutto da capo».
Ci spieghi il significato specifico dell’espressione “dissonanza emotiva”.
«È un fattore che si riferisce al dovere mostrare il sorriso anche quando forse felici non lo siamo, al dovere essere sempre cortesi anche di fronte a ipotetici clienti che cortesi non lo sono».
Quali altre situazioni frequenti le capita di dovere analizzare?
«Quelle di persone che non si sentono gratificate dal proprio superiore. Abbiamo una cultura del “tu sei pagato, e questo devi fare”. Ma la motivazione arriva anche da carezze emotive».
E perché questo concetto non passa?
«Perchè spesso nelle aziende manca la cultura del feedback positivo. Il capo pensa: “Se gli dico bravo poi si monta la testa”, oppure “È solo il suo dovere”. Ed è proprio basandosi su simili ragionamenti che a lungo andare si crea demotivazione».
Nell’era dei social network succede anche questo: alcuni dipendenti in malattia per burnout dopo qualche mese a casa iniziano a pubblicare sui social network foto in cui si mostrano felici e in situazioni di relax. Non è un controsenso?
«No. In casi del genere il paziente a un certo punto deve buttarsi in attività piacevoli. È il medico stesso a consigliarglielo. Non bisogna pensare che se uno è in giro, allora può anche lavorare. Oggi si fa ancora troppa fatica a distinguere uno che si rompe una gamba o che ha la febbre da uno che ha un malessere psichico. Questi tipi di malattia non possono essere messi sullo stesso piano».
Cosa deve fare una persona che inizia a sentire i sintomi del burnout?
«Sembrerà banale, ma la prima cosa da fare è chiedere aiuto. Non lasciare che la situazione si protragga nel tempo. Perché in questi casi le cose peggiorano in maniera naturale. Continuare come sempre rischia di essere molto pericoloso».
Più nel concreto cosa propone?
«Bisogna capire prima di tutto perché le cose sul lavoro non vanno. A volte si pensa di non potere essere in grado di parlare con il proprio superiore. Si è rinchiusi in una sorta di paura. Già solo prendere il coraggio di andare nel suo ufficio, esporre i fatti e magari proporre qualche compromesso può essere fondamentale».
Sì, ma se poi un dipendente ha due figli a carico questo coraggio potrebbe anche non arrivare…
«È vero, il fatto di avere una famiglia da mantenere potrebbe frenarci. Soprattutto in un periodo di disoccupazione e di licenziamenti. Tante volte però mi è capitato di sentire frasi del tipo: “Pensavo che il mio capo non fosse comprensivo. Ci ho provato ed è andata bene”. L’unica cosa da non fare è stare immobili».
E l’ipotesi di cambiare lavoro? Quante volte emerge in circostanze simili?
«A volte emerge Ma più raramente si concretizza. Perché spesso si tende a pensare di non avere alternative. In realtà le alternative ci sono quasi sempre».