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Raccontare gli alberi per raccontare un mondo che si può ancora sistemare

FESTIVAL DU FILM VERTRaccontare gli alberi per raccontare un mondo che si può ancora sistemare

31.03.23 - 06:30
Intervista a Giorgio Vacchiano, ricercatore e docente in gestione e pianificazione forestale, e protagonista del film "Il seme del futuro"
Festival Film Vert
Giorgio Vacchiano
Giorgio Vacchiano
Raccontare gli alberi per raccontare un mondo che si può ancora sistemare
Intervista a Giorgio Vacchiano, ricercatore e docente in gestione e pianificazione forestale, e protagonista del film "Il seme del futuro"

LUGANO - Quando le guardiamo ci sembrano grandi, immense, indistruttibili. Ma le montagne nascondono delle fragilità e, sebbene non le percepiamo nelle passeggiate della domenica, esistono. Per scoprirle sabato pomeriggio alla Lux art house di Massagno verranno proposte al pubblico, nell'ambito del Festival du Film Vert (qui il programma), alcune proiezioni a tema ambientale. Fra di esse c'è "I semi del futuro", realizzato da Francesca Frigo e dal ricercatore Giorgio Vacchiano, che abbiamo intervistato.

Qual è la storia che vuole raccontarci?
«La storia è quella di un nuovo rapporto tra noi e la foresta, dei legami invisibili che ci legano e che non possiamo più ignorare. Parla di tutto quello che fa per noi e che oggi è minacciato dalla crisi climatica che abbiamo causato. E quindi parliamo di quali soluzioni si possono adottare per conservare i boschi e tutti quei benefici che danno alla società. Nel documentario, faccio visita a dei colleghi ricercatori, anche per mostrare che oggi la scienza si fa insieme, che si trovano ognuno in un posto specifico della Valle d'Aosta dove c'è una sfida diversa. Come ad esempio gli insetti che attaccano un bosco, il fuoco che lo ha in parte distrutto, la siccità o ancora i cambiamenti che avvengono all'interno di un ghiacciaio».

Ma non sono problemi visibili solo nella regione italiana.
«Sappiamo che tutte le foreste di montagna sono le prime vittime della crisi climatica perché la montagna si riscalda più velocemente della pianura. La Val d'Aosta è speciale nel senso che è molto arida. Il parallelo in Svizzera potrebbe essere fatto con il Vallese. Sono valli interne, che si trovano proprio nel cuore delle montagne, dove già di per sé le piogge arrivano poco e tutto è un po' più esagerato a livello di impatti, soprattutto lato siccità».

E quindi gli alberi come stanno?
«È un filo sottile quello che cerco di raccontare. Da una parte gli alberi convivono da milioni di anni con fenomeni estremi, come il fuoco di origine naturale e la siccità che periodicamente arriva, e hanno quindi elaborato una serie di strategie per resistere a questi attacchi. Il punto è che la crisi climatica sta facendo cambiare anche questi fenomeni estremi. Non è il fatto che ci sia o non ci sia una siccità, è quanto è intenso e quanto è vasto e quanto frequentemente ritorna a colpire il fenomeno. Se questi parametri a cui gli alberi si erano abituati cambiano, cominciamo a essere in difficoltà».

Possiamo aspettarci in un prossimo futuro a vedere delle intere aree di vegetazione morire?
«In alcune foreste del mondo abbiamo cominciato a vedere alcuni segni, per fortuna ancora rari, ma è comunque un segnale d'allarme, di foreste che faticano a riprendersi. Normalmente dopo un fenomeno estremo, come un incendio, ci aspettiamo che le piante ricrescano, perché arrivano semi da altre piante. Il problema è che se dopo un incendio segue una siccità, i semini non hanno più quell'umidità che serve per germogliare. Si chiude, insomma, una finestra di tempo e la foresta allora può diventare qualcos'altro, per esempio una steppa. Tutti quegli alberi non tornano più, ci sarà un nuovo tipo di vegetazione e va bene. Ma che magari non ci sta le stesse protezioni di un bosco, come la prevenzione dal dissesto o la produzione di legno».

E questo ha un impatto anche su di noi?
«Sulla biodiversità ci sono in realtà diversi effetti possibili. Non tutto è sempre negativo. Questi eventi possono aprire l'accesso a delle specie che non trovavano prima un posto in quell'habitat. Il rovescio della medaglia è che spesso si tratta di specie invasive, ossia specializzate nel reagire in queste situazioni critiche».

Da decine di anni esistono documentari che vogliono sensibilizzare la popolazione sull'ambiente. Ma, nonostante ciò, siamo comunque nel pieno di un'emergenza. Che cosa spera di ottenere con il documentario?
«In realtà, secondo me, negli ultimi anni e in particolare tra i cittadini ora che gli impatti sono arrivati diretti da noi, il dibattito, molto acceso, inizia a spostarsi sulle soluzioni. È più che altro la classe dei decisori che fatica a recepire questa sensibilità, fatica a cambiare il paradigma - perché qui non si tratta di mettere delle pezze, si parla di cambiare modello di sviluppo, economico e di società. Chiaramente non si fa in pochi mesi, e bisogna farlo in modo inclusivo, senza lasciare indietro nessuno. Quello che vogliamo fare noi con il documentario è sicuramente continuare a raccontare alle persone che cosa sta succedendo, con uno sguardo particolare ai boschi, non spaventare e portare soluzioni. Perché, come ci dice bene l'Ipcc pubblicato settimana scorsa, abbiamo tutte le risorse e i soldi per attuare questo cambiamento. L'unico problema è decisionale».

A chi rifiuta l'esistenza del cambiamento climatico, che cosa risponde?
«Non posso rispondere con i numeri, perché anche se ci sono, e sono chiarissimi, vengono messi in discussione. Non è un elemento efficace. Io risponderei più dal lato emotivo. Perché secondo me sono le emozioni che di fanno prendere delle decisioni. Sappiamo che i dati che abbiamo sono certi. Ma mettiamo che, per assurdo, non fossimo ancora del tutto sicuri, perché non agire in base al principio di precauzione? Perché non metterci dal lato sicuro? Se, per esempio, togliamo le macchine a combustione dalle strade oppure usiamo l'energia rinnovabile anziché il petrolio per spostarci e per far andare avanti le nostre industrie, non ci guadagniamo solo a livello di clima, ma anche a livello di benessere, di aria più pulita nelle città, godremmo di un'energia anche più distribuita e diffusa. Non credi al cambiamento climatico? Va bene. Ma guarda comunque gli altri vantaggi e guarda come potrebbero portare a una società più giusta e a un mondo più bello in cui vivere».

Sempre più spesso i giovani (soprattutto) soffrono di ansia climatica. Si sente mai frustrato? Perché? E qual è il suo modo di reagire?
«Mi trovo in una posizione, anche se solo nel mio settore di competenze, in cui la mia voce ha un valore. Questo dà sicuramente un senso a ciò che si fa. È un antidoto per combattere la sensazione d'impotenza. Però da un anno e mezzo sono papà e sento molto di più lo spavento. Perché più che frustrato sono spaventato dalle temperature di queste settimane, dal pensiero della prossima estate, se farà troppo caldo per portare il piccolo al mare. Cose quotidiane. Una cosa che posso consigliare però a chi fatica a reagire è quella di mettersi in gruppo, trovare altre persone che avvertono questa urgenza e chiedere insieme che un cambiamento avvenga. Degli studi di scienza sociale recentemente pubblicati ci mostrano che nelle società i cambiamenti avvengono quando almeno il 25% li richiede».

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