Cerca e trova immobili
Stati Uniti

Il problema dei lavoratori senza sicurezza nella transizione green

Dalle miniere di cobalto agli impianti di riciclaggio, passando per i pescatori: i diritti umani nell'economia verde
Getty
Il problema dei lavoratori senza sicurezza nella transizione green
Dalle miniere di cobalto agli impianti di riciclaggio, passando per i pescatori: i diritti umani nell'economia verde
NEW YORK - Green o non green, questo è il dilemma. La transizione verso l'economia verde nasconde qualcosa di molto nero. Sono i lavoratori di cui i diritti non vengono tutelati, perché green non è sinonimo di safe. Esiste un con...

NEW YORK - Green o non green, questo è il dilemma. La transizione verso l'economia verde nasconde qualcosa di molto nero. Sono i lavoratori di cui i diritti non vengono tutelati, perché green non è sinonimo di safe.

Esiste un confine labile tra marketing e realtà, e le politiche vendute come green dalle aziende non tutelano per forza ogni minima fase dei processi industriali. Negli ultimi anni si è invocato il fiorente mercato dei veicoli elettrici, ad esempio, che bypassano il petrolio, ma anche i diritti umani. La tecnologia verde necessita rame, nickel, cobalto e litio e, secondo il Fondo monetario internazionale, la richiesta di queste materie è destinata a crescere nei prossimi 20 anni.

La Repubblica del Congo, come alcune altre nazioni, è il piede di ferro per questo tipo di mercato, perché risponde alla richiesta del 70% di cobalto a livello mondiale. Ma se già oggi nelle miniere vengono sfruttati dei minori e le condizioni di lavoro sono pericolose, con un aumento della domanda la situazione non potrà che peggiorare. Allo stesso modo, i lavoratori impiegati nel riciclo dei rifiuti tecnologici, riferisce il Financial Times, possono trovarsi con salari molto bassi e senza sicurezza sul lavoro.

Lo ha riferito per esempio uno studio dell'Health and safety at work, che si è recato sul posto in sette centri di riciclaggio e ne ha campionato l'aria, concludendo che i lavoratori sono esposti a livelli elevati di polvere ed endotossine. Intervistati, l'84% degli impiegati ha dichiarato di soffrire di problemi cutanei, respiratori, gastrointestinali e muscolo scheletrici, attribuendone la causa al loro lavoro.

Non solo tecnologia - A livello di marketing, quando si parla di economia verde, vengono invocate immagini di persone che si prendono cura della natura e che lavorano in ambienti puliti e sicuri, ma non sempre ciò che si nasconde dietro a questa certificazione rispecchia davvero la realtà. Nemmeno quando questo tipo di messaggio arriva dal Food Systems Summit dell'Organizzazzione delle Nazioni Unite (Onu). Recentemente si è iniziato a parlare delle potenzialità del Blue Food, ovvero il cibo che viene dall'acqua. Ne sono state esaltate le potenzialità nutritive, il fatto che a livello di nutrizione l'umanità necessità del 5% della fauna acquatica.

Come riporta Wired, la relatrice di questo progetto è la Blue food alliance, che al Summit ha messo tutti d'accordo per procedere a un aumento del consumo del cibo prodotto in acqua. Nel suo rapporto, "The blue food assessment", è stato elogiato il fatto che la pesca e l'acquacoltura possono avere un basso impatto ambientale e il pesce ha apporti nutritivi migliori dei cibi animali terrestri. Ma non solo, si parla di sicurezza alimentare e di come, procedendo in questa direzione, si va verso un'economia sostenibile e si promuove l'ecologia.

Per quanto i dati possano essere scientifici, qui il problema è che non tutti sono stati presi in considerazione. Perché secondo la stessa Food and Agriculture Organization dell'Onu il 90% delle specie acquatiche sono sotto la metà o stanno per superarla nei livelli storici. E dal 1970 a oggi, solo gli squali e le razze sono scomparse al 90%.

Inoltre, come svariati studi scientifici hanno dimostrato, per quanto possa essere vero che il pesce sia una fonte di vitamine e nutrimenti importanti, è anche vero che possono contenere microplastiche e tossine bioaccumulabili come Pcb, Pbde e mercurio, come spiegato in uno studio pubblicato su ScienceDirect. Questo non solo per le cannucce, ma soprattutto per le stesse reti da pesca, che rappresentano il 46% dei rifiuti plastici presenti in mare.

Dal punto di vista dei diritti umani, spesso la pesca viene pubblicizzata con i classici marinai che indossano il cappellino, hanno la barba e portano con sé anche il nipote a pescare su una vecchia barca. E che al ritorno appendono il pescato fuori casa. Come è dimostrato nel documentario Seaspiracy nella pesca, per soddisfare la richiesta, vengono utilizzati metodi di schiavismo. E sono decine di migliaia le persone private dei loro diritti che sono obbligate a lavorare su un quarto della flotta peschereccia a livello mondiale. E questo lo ha rivelato una ricerca intitolata "Satellites can reveal global extent of forced labor in the world’s fishing fleet".

🔐 Sblocca il nostro archivio esclusivo!
Sottoscrivi un abbonamento Archivio per leggere questo articolo, oppure scegli MyTioAbo per accedere all'archivio e navigare su sito e app senza pubblicità.
Entra nel canale WhatsApp di Ticinonline.

Sappiamo quanto sia importante condividere le vostre opinioni. Tuttavia, per questo articolo abbiamo scelto di mantenere chiusa la sezione commenti.

Su alcuni temi riceviamo purtroppo con frequenza messaggi contenenti insulti e incitamento all'odio e, nonostante i nostri sforzi, non riusciamo a garantire un dialogo costruttivo. Per le stesse ragioni, disattiviamo i commenti anche negli articoli dedicati a decessi, crimini, processi e incidenti.

Il confronto con i nostri lettori rimane per noi fondamentale: è una parte centrale della nostra piattaforma. Per questo ci impegniamo a mantenere aperta la discussione ogni volta che è possibile.

Dipende anche da voi: con interventi rispettosi, costruttivi e cortesi, potete contribuire a mantenere un dialogo aperto, civile e utile per tutti. Non vediamo l'ora di ritrovarvi nella prossima sezione commenti!
NOTIZIE PIÙ LETTE