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NEGLI IMMEDIATI DINTORNICinquant’anni che cammino

01.04.15 - 08:00
Scrittori e artisti raccontano i territori di confine tra la Svizzera e l'Italia attraversato dalla ferrovia TILO
Fonte foto: Sébastien Agnetti
Cinquant’anni che cammino
Scrittori e artisti raccontano i territori di confine tra la Svizzera e l'Italia attraversato dalla ferrovia TILO

Ogni tanto li vedo, i cuochi dello Splendide in pausa che ridono e fumano su una panchina. Il fumo delle sigarette invece di quello dei pentoloni. Metri più in là, un pannello informa sulle “peschiere flottanti” per la piscicoltura nel golfo. Più avanti il rinoceronte di granito di Travaglini. I turisti si mettono in posa per la fotografia. I ragazzini, più svelti, si arrampicano, lo spronano, galoppano via. Cammino, il ritmo addomestica, pialla, svuota; certe volte capita di ritrovarsi con un pensiero levigato e bianco come un uovo, e di chiedersi chi l’abbia deposto lì, tra le nostre mani.

Cigni in fase di decollo, le ali sbatacchiate suonano come schiaffi e lenzuola. Sul lungolago prima di camminare ho volato, appesa alle braccia di chi pazientemente scandiva: uno due tre oooh – e mi proiettava verso le foglie larghe dei tigli. Ridevo e scalciavo, passavano i pomeriggi. Sarà per quei voli che osservo con piglio da ornitologa gli uccelli del lago. I germani reali: elmo verde i maschi motociclisti; le belle femmine brune, lucenti come castagne. Al tempo degli amori finiscono sott’acqua per la foga dei maschi affondatori. Maleducati, penso sempre. Ma poi vengono i cerchi pigolanti, pedalanti, dei pulcini attorno alle madri. Disegnano orbite sempre più larghe inseguendo moscerini.

E i gabbiani? Mi ricordo, col cappotto abbottonato stretto, il braccio teso, il lancio esperto, i becchi gialli, sforbicianti, i pezzi di pane più duri spaccati col tallone, pestando e sbriciolando in quelle domeniche d’inverno. La gioventù di quegli anni era in ritardo, per il ’68. Andavamo all’asilo, cosa ne sapevamo? Alle elementari idem, facevamo la fila per due con la cuffia annodata sotto il mento. A noi interessava la geometria semplice dei dolci: coni gelato, spirali di liquirizia, triangoli di cioccolato. E un ordigno di zucchero e coloranti che costava cinque centesimi e durava una vita: scatenava grandi salivazioni e carie da primato. Che bonbon, che supercaramella!

Bevevamo Ovomaltina, le rivoluzioni passavano altrove. Nessun Che Guevara in vista, sul lungolago. Ci sono rimaste le domeniche senz’auto, i carri del corteo della vendemmia, trapuntati di garofani. Niente Martin Luther King, in cambio il primo Burger King. Il rock? L’ha ballato mia madre. Lei ha letto Simone de Beauvoir, si è messa in topless. Quando l’ho fatto io, nessuno ci faceva più caso. Quel désespoir!

Nuota la folaga con il pigiama nero, di chiffon, la mandorla di marzapane sulla fronte, le zampacce da scheletro, da danza macabra.

Primi anni ottanta, bisognava darsi una mossa. Siamo diventati sportivi. Abbiamo infranto divieti minori, pilotando in Riva Caccia le prime tavole da skate, sentendoci più o meno Bonnie and Clyde. Dalle siepi davanti al Central Park saltavano fuori gli agenti, minacciavano multe. Metri più in alto la sequoia colpita dalla saetta fumava e anneriva. Il maniaco l’ho incontrato in un parcheggio – avrà trovato occupate le siepi. Goffo predone con l’impermeabile maròn è rimasto sul posto coi peli delle cosce irti e fitti mentre mi allontanavo al piccolo trotto: hop-hop-hop. E dire che c’è stato un tempo in cui non facevamo jogging in calzoncini corti e con l’iPod…

Mi fermo a guardare l’airone, infilzato sulle gambe sottili, di profilo come una divinità egizia, le ali spazzolate di cenere. Un colpo di vento gli scombina il ciuffo, l’airone sembra un vecchio teddy boy.

All’imbarcadero, Martina, capa della marina, fa i biglietti ai turisti, li carica sui battelli per Gandria, Porlezza e Swissminiatur. Tra luglio e agosto il suo ventilatore gira al massimo, crea piccoli vortici di aria calda e ozono. Che sollievo, quando dal lago spira un venticello: tempera le onde, fa respirare. Guardo gli attracchi, gli arrembaggi, i lanci delle gomene – gli uomini delle barche non sbagliano un colpo. Mulinano le corde, si getta la passerella, s’intruppano tedeschi, cinesi e indiani. A tradimento il capitano aziona la sirena che rimbomba sotto la volta libertì. Trasalimenti, risate, si riparte per i grotti, per il museo dei contrabbandieri, tra il fuggi fuggi di pedalì. Anzi no, di pedalò.

Dall’altra parte della strada le vetrine di Louis Vuitton. Sembrano voliere, e le borse fagiani, tortore, parrocchetti. L’addetto alla sicurezza in abito elegante apre la porta alla clientela russa, sorveglia con garbo. Chissà se si posa ogni tanto sul suo sguardo un velo di noia? No di certo. Dev’essere pronto, in caso di bisogno a sfoderare le unghie, les griffes, proprio come le borse sciccose che lì stanno di casa.

Intanto i frontalieri stipati nella navetta delle Fornaci sbuffano. Per svagarsi mandano sms, ascoltano le news, il gossip del festivàl, l’ultima rapina al distributore di benzina. Cosa pensano mentre li sorpasso, sgambando tra i tigli? Forse: "Non finisce più ’sta colonna, che barba, che do bàll!".

Le ali delle poiane luccicano come coltelli. Volano in tondo, l’occhio nero – pece che fa il contropelo all’acqua. L’artiglio nascosto nel bouquet di piume è pronto a scattare come un serramanico. A piantarsi tra le pinne di una giovane trota.

Una generazione tiepida? Quando abbiamo messo mano alle bandiere, agli striscioni, quando abbiamo fatto i reading per la pace, l’Iraq è stato invaso. Adesso c’è la crisi. Noi, prima generazione dalla Seconda guerra a imboccare la luna calante dell’economia, vediamo la sua ombra appuntita, una falce, disegnarsi sulla piazza, sulla piazza finanziaria, il segreto bancario traballare sui suoi trampoli. Diventiamo ecologisti, grandi separatori di plastica, di alluminio, riciclatori di carta. I genitori ci aiutano a pagare i conti.

Miraggio? Passa un piccolo bolide blu elettrico, un martin pescatore. Saetta tra i tavolini del lounge bar su palafitta, le coppe di gelato extra large, il prosecco, i samovar. I bambini in vacanza buttano la mollica ai pesci. La signora della boutique mangia leggero, un filo d’olio sull’insalata greca. Molto chic.

Nel frattempo sul lungolago incontro uomini a passeggio il pomeriggio, sono i disoccupati con la nevrosi, i neri indecifrabili attaccati al cellulare. I padroni dei cani educatamente insacchettano, insalsicciano il bottino. Le madri, le nonne, sgambettano dietro il passeggino. L’uomo con la chitarra fa dentro e fuori dalla casa di cura. Le donne col velo sono misteriose, attirano gli sguardi invece di scansarli. Ragazzi bigiano, strillano.

Arranca la sciùra, con i terrier infiocchettati in carrozzella. La signorina scodella l’ombelico. Girano le teste. Le barche legate ai pontili mostrano la prua. Qui c’era la panetteria, dopo scuola passavamo a chiedere le paste avanzate. Qui si è demolito un altro vecchio albergo. È sorta un’elegante palazzina, di standing superiore. Standing ovation per l’architetto cubista, futurista, dadaista. Per il piano regolatore.

Cinquant’anni che cammino, ne ho viste di cose, dopotutto. La più strana? Faceva già notte, già freddo, nessuno in giro. Ma all’altezza del busto di George Washington, una visione: quattro figure possenti, taurine, leonine, circondano una sagoma scura, un obice, una bara. Conto alla rovescia, poi scatta la banda di forzuti, di forzati, spinge a tutta birra. Spingono, ruggiscono, sfrecciano sul lungolago con un fracasso di rotelle! Il mio stupore illumina la notte come un lampadario. Si fionda la visione tra i tigli surgelati, rombando tuonando crepitando. Man mano si annacqua. Sparisce, l’oscurità ripiomba. Perché e percome si allenasse una squadra di bob a quattro in riva al Ceresio invece che a St. Moritz, è mistero sì, ma secondario.

Nella Chiesa “degli Angeli” il Cristo del Luini sta in croce da cinquecento anni. Bambina, alla messa della domenica per distogliermi dalla sua pena contavo le persone dell’affresco, le zampe dei cavalli.

Pesci danzanti nel becco dei cormorani, li vedi andare giù, nel buio della gola, scodinzolanti, spacciati, inghiottiti col bell’argento vivo della coda, del dorso. Peccato.

Novità: al Parco Ciani c’è il Park&Read, restano il divieto di calpestare le aiuole, i tossici nel loro angolino, no monopattino, al guinzaglio i cani, occhio alla balneazione, il gelato gusto puffo e nutella. Alla foce rinaturata la passeggiata è sulla passerella; ecco i city angels in ricognizione, Socrate è ancora latitante. Più avanti ecco il LAC nuovo di pac, col suo sperone.

Al bagno pubblico Patti e Seo servono l’apéro, la Cinzia mi racconta che da piccola saltava dai tetti del paese, oltre la dogana, direttamente nel lago. Che tuffi, che spruzzi! Poi parte il deejay, la musica a gogò, me ne vado. Ma il sabato mattina tutti a fare yoga sullo zatterone. A quando, la zumba?

Acqua verde, torbida di alghe, quando c’erano i fosfati.

Acqua nera, notturna, sullo sfondo la pinna scura delle montagne, dove il cervo si sgola prima di tuffarsi, remando con gli zoccoli in spregio ai motoscafi, fino al ponte-diga. Nuota e nuota.

Acqua grigia, liscia, l’incudine del fabbro su cui cadono i giorni, tutti i lunedì, tutti i martedì della vita, i giorni di scuola, sempre in ritardo, i mercoledì di lavoro con la borsa a tracolla, la spesa, i giovedì che ci corre mio figlio, col passo lungo dell’atleta, i venerdì notte che ci torna scherzando, andando col pensiero alla ragazza, ai suoi casi di giovane uomo. L’ho già detto? Il mio bisnonno era di Morcote, traghettava la ghiaia col barcone. Cadono i giorni, i sabati che mia figlia sul lungolago pedala, scampanella, saldo il casco in testa, io dietro, con il cane annusante, raspante, al guinzaglio. Le domeniche, che ci trovano altrove.

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