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CORRISPONDENZA ESTERAMoctar, lo studente senegalese che voleva arrivare in Europa legalmente

14.05.15 - 12:31
Di Linda Pfammatter, ieri in Ticino, oggi in Senegal
Foto archivio Fotolia
Moctar, lo studente senegalese che voleva arrivare in Europa legalmente
Di Linda Pfammatter, ieri in Ticino, oggi in Senegal

Il 18 aprile 2015, mentre avviene l’ennesimo naufragio nel Mediterraneo in cui centinaia di migranti sono dispersi, io mi trovo a fissare l’Oceano atlantico dalle coste senegalesi. 

Durante la mia permanenza in Senegal spendo molto tempo con i residenti, a chiacchierare, condividere un pasto, o a guardare fotografie impolverate. Passeggiando tra i pescherecci del paese i nativi mi raccontano di amici o parenti, partiti dalle coste del Senegal per poi venir presto inghiottiti dal profondo oceano. Alcuni non si limitano a raccontare dettagliatamente, ma bensì mi indicano una delle tante barche in legno, su cui i pescatori appena rientrati si accingono a rimuovere l’acqua penetrata.

“Oggigiorno non succede quasi più che qualcuno parta verso la Spagna da qui”, mi spiega un giovane autista di nome Omar, “troppe persone sono morte partendo con queste piroghe, ora ci si reca via terra in Libia o in Marocco, e poi si parte da lì per l’Europa”.

In Senegal la vita non è facile, the World Bank stima che ancora oggi che il 47% della popolazione vive in povertà secondo lo standard nazionale, e il tasso di scolarizzazione è tuttora ancora basso.

Eppure c’è chi ce la fa, Moctar, un ragazzo che incontro a bordo di un taxi collettivo, ha addirittura ottenuto due Bachelor contemporaneamente. È un ragazzo come altri qui in Senegal, uno dei giovani che dopo aver avuto la fortuna di essersi potuto permettere di seguire il proprio desiderio di studiare all’università grazie alle risorse economiche del padre, intende trovare un impiego per sostenere sé stesso e la propria famiglia. Tuttavia, vuoi per il caso o la nera sfortuna, come di fatto accade anche altrove, il ragazzo da due anni si ritrova a gironzolare per le città senegalesi alla ricerca di un impiego stabile e degno del suo titolo. Moctar ha le idee ben chiare; i suoi obiettivi sono proseguire i propri studi all’estero, provare l’ebrezza di volare, avere un lavoro appagante e poter comperare una modesta casa che in grado di accogliere la sua famiglia intera.

Mi spiega che sono molti i ragazzi che non trovando lavoro come lui, e avendo l’obbligo morale di sostenere i genitori, cercano di andare in Europa, perché una volta che torni e puoi dimostrare di aver lavorato al nord del mondo, sei abbastanza sicuro che sarà più semplice trovare un impiego in Senegal. “Sono in tanti a entrare in Europa illegalmente - mi racconta il giovane - capisco le motivazioni, ma io voglio fare le cose diversamente”.

Sorseggiando del thè senegalese, Moctar mi spiega con un po’ di amarezza nel proprio tono di voce, di come si sia recato all’ambasciata canadese con i documenti necessari e i sui sogni che gli battevano forte in petto. Ma gli è stato comunicato che non poteva partire. Infatti, anche racimolando i risparmi di genitori e parenti, sono poche le persone che si possono permettere di dimostrare di avere il montante richiesto come sicurezza dai paesi occidentali, nei quali il salario mensile è ben differente. Per tutti i paesi europei vale la medesima cosa, i requisiti sono fuori dalla portata del senegalese medio. La Svizzera richiede una prova di possesso di 100 franchi svizzeri per ogni giorno che si prevede di passare sul suolo elvetico. Questo significa che per un mese di soggiorno in Svizzera, un senegalese dovrebbe lavorare all’incirca un mese nel proprio paese, senza spendere nemmeno un centesimo.

Sebbene Moctar comprenda bene che il divario economico tra il Senegal e i paesi occidentali rappresenti un ostacolo quasi insormontabile al momento, non sembra scoraggiarsi, e mi comunica che la sua impossibilità di partire oggi è per lui un segno di Allah. “Io credo in me stesso”, mi spiega scandendo ed enfatizzando ciascuna parola, “e so che un giorno riuscirò a raggiungere i miei sogni, anche se dovrò faticare molto”.

Come molti, mi sono sempre posta la domanda di cosa possa spingere le persone comuni, provenienti da regioni relativamente prive di conflitti armati, e da paesi con un livello di sviluppo umano e della sicurezza in crescita, ad avvicinarsi tanto alla morte. Il breve racconto di Moctar può servire come esempio per comprendere meglio, anche se in modo un po’ semplicistico, una delle possibili dinamiche motivazionali che potrebbero spingere un ragazzo comune a rischiare la propria vita. Una possibile spiegazione è la speranza umana per un futuro più facile per sé stessi e le persone care, un desiderio che non solo accomuna Moctar a tutte quelle persone che riposano nel Mediterraneo, ma anche a tutti noi.

“Allora ci vediamo”, mi dice con tutta sincerità e visibilmente credendo nelle proprie parole, “magari quando avremo entrambi dei figli giocheranno insieme qui in Senegal, oppure passerò a trovarti in Svizzera quando avrò finito il mio master in un paese francofono”.

“in Shalla”, si ricorda di aggiungere mentre mi allontanano verso le porte d’entrata dell’aeroporto di Dakar.

“Se Dio vuole”, gli faccio io da eco.

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