Se il marchio ecosolidale spesso è sinonimo di equo compenso per chi coltiva e produce non sempre è vero per chi lavora il prodotto, ma c'è chi ci prova
BOBO-DIOULASSO - È il 2018 ma sembra di essere nel 1750: una tavolata di metri e metri di operai armati di martello che spaccano, aprono, e sbucciano gli anacardi. Questo per otto ore al giorno. Succede nell'azienda svizzera Fairtrade Gebana che coltiva e lavora gli anacardi in loco retribuendo la popolazione locale.
Un'ingiustizia? Forse no, considerando che l'alternativa utilizzata da marchi non "Fair" è quella di inviare il raccolto in Asia, più precisamente in Vietnam, dove il lavoro viene svolto con l'ausilio di macchinari. In questo modo si riescono ad abbattere il prezzi, che è una cosa fondamentale per i grossisti europei.
La scelta di Gebana è quindi oculata: investire in Africa per evitare migliaia di chilometri di spostamenti prima che i loro prodotti finiscano... nella bocca del consumatore. In questo modo, inoltre, si creano posti di lavoro sul territorio. Agli operai africani solitamente viene corrisposto il salario medio minimo, ma questo - in realtà - non sempre è possibile.
Anche il marchio-principe per il Fairtrade, Max Havelaar, non sempre è in grado di garantire un'equa retribuzione: questa viene corrisposta agli agricoltori e ai coltivatori ma non sempre a chi si occupa di lavorazioni ulteriori del prodotto. «Purtroppo è impossibile garantire un giusto compenso su tutta la filiera, se dovessimo farlo i prodotti sarebbero estremamente più costosi», spiega il portavoce di Max Havelaar Patricio Frei.
Questo articolo, originariamente apparso su 20 Minuten, è stato realizzato durante un viaggio in Burkina Faso organizzato da Gebana.