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Formazione al CentroLe nuove sfide della fiscalità internazionale nella digital economy

29.02.24 - 10:00
di Paolo Piantavigna, Professore associato di Diritto tributario, Università di Pavia; Avvocato del foro di Milano
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Le nuove sfide della fiscalità internazionale nella digital economy

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di Paolo Piantavigna, Professore associato di Diritto tributario, Università di Pavia; Avvocato del foro di Milano

Il processo di digitalizzazione ha trasformato il nostro modo di socializzare, consumare e fare impresa.
L’applicazione pervasiva delle nuove tecnologie informatiche, delle reti e delle infrastrutture di comunicazione è percepibile soprattutto nel settore dell’e-commerce (in cui internet è lo strumento determinante che permette la vendita a distanza di beni e servizi, sia materiali che immateriali), della sharing economy (attraverso imprese che creano piattaforme per consentire ad altre imprese di commercializzare i loro beni e servizi) e dei social media (che forniscono servizi agli utenti).
Questa “Quarta Rivoluzione Industriale” (come l’ha definita il Presidente del World Economic Forum, Klaus Schwab) riguarda non solo le big five dell’hi-tech c.d. “GAFAM” (aka Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft), ma tutti i sistemi economici innovativi che:

    1. generano nuove forme di ricchezza, coinvolgendo nella creazione del valore gli utenti (che da consumer diventano prosumer), i quali - consapevolmente o meno - creano un effetto network, fornendo dati (personali e non), condividendo contenuti e interagendo;
    2. adottano modelli di business pluri-settoriali, in grado di adeguarsi rapidamente alle esigenze e alle regole di Paesi diversi, delocalizzando i fattori produttivi e accrescendo il valore dei loro intangible asset;
    3. non presentano alcun collegamento fisico coi loro mercati di riferimento, poiché scambiano beni “dematerializzati” con acquirenti sempre più mobili;
    4. riducono il numero degli intermediari commerciali e finanziari coinvolti nelle operazioni e, quindi, dei possibili soggetti qualificabili come “sostituti d’impostà”; e
    5. accrescono la volatilità dei capitali, prevedendo l’uso di sistemi di pagamento elettronici (che in taluni casi garantiscono l’anonimato delle parti contraenti) e di monete virtuali e cripto-valute (che hanno dato avvio alla tecnologia blockchain e consentito la circolazione dei cripto-asset e dei non fungible token).

L’economia digitale, permettendo di superare le barriere geografiche e giuridiche costituite dai confini nazionali degli Stati, mette sotto scacco i criteri di tassazione tradizionali (che collegano la ricchezza prodotta alla giurisdizione di residenza dell’imprenditore) e rende difficoltosa sia l’attività di controllo delle autorità fiscali rispetto agli schemi di pianificazione fiscale aggressiva realizzati dai grandi player internazionali, sia la protezione dei gettiti erariali nei confronti delle pratiche di concorrenza fiscale dannosa attuate dagli altri Stati (ad esempio, Paesi come Olanda, Irlanda e Lussemburgo hanno creato le loro fortune sui regimi di favore riservati alle grandi multinazionali statunitensi).
A fronte di un fenomeno così diffuso, irreversibile e veloce, il diritto internazionale tributario ha la necessità di adeguarsi, riscrivendo il proprio lessico, aggiornando le categorie giuridiche e introducendo nuove regole, idonee a fronteggiare le sfide dell’economia contemporanea: cosa tassare? Chi ha il diritto di tassare? E come tassare?

Cosa tassare?

Poiché i bit si sono sostituiti agli atomi (N. Negroponte, Being Digital, 1995), l’imposizione fiscale deve intercettare inediti e multiformi oggetti di valore: non più persone e beni fisici, ma soggetti e realtà virtuali.
È stata, al riguardo, prefigurata l’opportunità di tassare i robot quali centri di imputazione di diritti e obblighi (“The robot that takes your job should pay taxes, says Bill Gates”, in Quartz 2017) o di conteggiare i dati scambiati online nelle transazioni commerciali.
Tali proposte si scontrano, però, con la difficoltà di individuare in modo univoco la base di calcolo dei nuovi oggetti imponibili, ossia di quantificare il valore generato dal bene o servizio digitale da sottoporre a tassazione, soprattutto in considerazione del fatto che in molte occasioni l’accesso al bene o servizio avviene gratuitamente (e.g. Google e Facebook).

Chi ha il diritto di tassare?

Essendo diminuita (se non azzerata) la necessità del venditore/prestatore di avere una presenza fisica nel luogo di consumo del bene ceduto (o del servizio prestato) attraverso internet, in quanto la cessione/prestazione è essenzialmente automatizzata e richiede un intervento umano minimo, bisogna introdurre nuovi criteri di collegamento per consentire la tassazione dei “redditi senza giurisdizione” prodotti nello cyberspace.
Abbandonato il principio secondo cui le imprese vanno tassate nel luogo dove sono collocate le attività fisiche di produzione, la potestà impositiva dovrebbe essere esercitata dallo Stato dove i consumi sono realizzati e i ricavi sono conseguiti, secondo un approccio destination-based.
Tuttavia, gli strumenti informatici (quali sito web, server e provider) utilizzati per realizzare gli scambi commerciali possono essere artatamente (e agevolmente) localizzati nelle giurisdizioni a più bassa pressione fiscale e consentire così “arbitraggi fiscali” (è l’impresa, cioè, che sceglie in quale Paese far tassare i propri profitti).
Inoltre, non è sempre facile individuare il territorio in cui la ricchezza è generata. Ad esempio, a quale Stato dovrebbe spettare la potestà di tassare il “valore” derivante da data creati attraverso un videogioco utilizzato in India da un consumatore svizzero, raccolti da un’impresa in California, elaborati nel Regno Unito e acquistati da un’impresa giapponese?
Occorre introdurre modelli impositivi originali per attribuire ai vari Paesi coinvolti i profitti ottenuti dalle diverse transazioni commerciali cross-border, in base ai fattori che concorrono alla c.d. “catena del valore”.

La capacità delle imprese digitali di espandersi su mercati diversi senza avere un elemento di collegamento con il territorio (un nexus fisico) rende complesso elaborare una soluzione condivisa a livello internazionale, che consenta di ripartire in modo equo e razionale la potestà impositiva tra i vari Stati in cui si svolge e si sviluppa l’attività delle imprese digitali.
Proprio in relazione alla questione su a chi spetti il diritto di tassare, si è acuita negli ultimi anni la contrapposizione fra Stati Uniti e Unione Europea.
Per i primi, esportatori di tecnologia digitale, deve continuare ad applicarsi il criterio di tassazione dello Stato di residenza del soggetto titolare della proprietà dei marchi, brevetti e del know-how dei beni prodotti e distribuiti nel mondo: a prescindere che i redditi derivino da modelli di business tradizionale o digitale, legittimati all’imposizione restano gli Stati di residenza delle parent company (ossia gli U.S.A.).
Al contrario, la Commissione UE si è fatta interprete di quegli Stati europei che ritengono che “i ricavi fatti su indirizzi IP europei [cioè da dispositivi di accesso alle piattaforme connessi a internet da un Paese UE] dovrebbero essere europei” (Margrethe Vestager, Web Summit di Lisbona del 7 novembre 2017). Tale misura richiede di determinare la c.d. “impronta digitale” di un’impresa in una specifica giurisdizione, ricorrendo a indicatori di attività economica inediti: i digital factor (come, ad esempio, l’attivazione di un dominio, di una piattaforma digitale o l’impiego di strumenti di pagamento locali). Se si riconoscesse il ruolo degli utenti nella formazione della catena del valore, i Paesi europei sarebbero legittimati a tassare una quota più elevata dei profitti dei giganti della tecnologia statunitensi.
Si tratta di un’idea moderna e ambiziosa che rinnova il concetto stesso di “mercato”, che non è più solamente il luogo del consumo, ma concorre alla creazione della ricchezza, in quanto sede degli utilizzatori dei beni e servizi digitali.

Infine, come tassare?

Le tecnologie digitali trasformano anche la dinamica del rapporto d’imposta, cambiando i modelli di attuazione dei tributi.
Basti pensare a l’utilizzo di banche dati e di modelli matematici e statistici nell’ambito degli accertamenti, l’obbligo della fatturazione elettronica, la predisposizione delle dichiarazioni precompilate, la sostituzione dei documenti cartacei con comunicazioni telematiche e atti digitali, il ricorso agli algoritmi predittivi e ai sistemi di intelligenza artificiale ai fini di tax compliance e l’introduzione del processo tributario telematico.
Tali innovazioni, nel rendere possibili nuove azioni e interazioni fra Fisco e contribuenti, richiedono specifici vincoli e tutele, a protezione soprattutto della privacy dei soggetti sottoposti a controllo, della loro identità digitale, della proprietà intellettuale.
La digitalizzazione dei procedimenti di accertamento e riscossione dei tributi dovrà, pertanto, essere accompagnata da regole che assicurino il rispetto delle libertà fondamentali dei privati e della trasparenza dell’azione delle amministrazioni finanziarie.

A queste tre nodali questioni hanno finora cercato di dare risposta i singoli Paesi, procedendo in modo unilaterale attraverso l’introduzione di specifiche digital tax (come, ad esempio, la tassa sui prodotti audiovisivi in Francia; l’imposta sui servizi di comunicazione elettronica in Ungheria; l’imposta catalana sui servizi di accesso al web).
Si tratta, però, di misure di corto respiro: per le sfide importanti che la digital economy pone a livello globale non bastano misure isolate o frammentarie, ma occorre un approccio integrato e sinergico, di natura necessariamente multilaterale.
Nell’impossibilità di istituire una sorta di giurisdizione fiscale sovranazionale, in assenza di un global tax consensus, si può (almeno) auspicare un miglior coordinamento tra i sistemi tributari nazionali, realizzabile grazie all’azione dei due principali attori dell’ordinamento fiscale internazionale: l’OCSE e l’Unione Europea.
L’OCSE per prima, attraverso l’Azione 1 del Progetto BEPS del 2015 (intitolata appunto “Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy”), ha segnalato l’esigenza di attribuire rilevanza alla “presenza digitale significativa” delle imprese, ai fini della configurazione di nuovi criteri di tassazione dei profitti e di riparto delle potestà impositive.
L’Unione Europea, da ultimo, ha proposto di “arruolare” come collaboratori del Fisco i giganti del web, chiamati a condividere i dati relativi ai redditi percepiti dai venditori/clienti attivi sulle loro piattaforme online (Direttiva n. 2021/514 del 22 marzo 2021, c.d. “DAC 7”).

Sono solo alcune delle misure in corso di ideazione.
Altre certamente ne seguiranno.
Per questo, l’aggiornamento “in tempo reale” sugli sviluppi della fiscalità internazionale sarà sempre più essenziale e strategico per i professionisti che operano nei diversi settori d’impresa.

di Paolo Piantavigna
Professore associato di Diritto tributario
Università di Pavia
Avvocato del foro di Milano


Questo articolo è stato realizzato da Centro Studi Villa Negroni, non fa parte del contenuto redazionale.
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