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La mattanza dei giornalisti in Messico: «Peggio di un paese in guerra»

In Messico le violenze contro i giornalisti sono all'ordine del giorno
In Messico le violenze contro i giornalisti sono all'ordine del giorno

In Messico, la libertà d'informazione si paga con la vita. Dal 2000 a oggi, secondo i dati forniti dal governo, sono oltre 260 i giornalisti assassinati nello svolgimento della propria professione. Sette reporter sono stati uccisi nel 2021, otto solo nei primi tre mesi del 2022: Josè Louis Gamboa è stato ucciso a coltellate, Margarito Martinz è stato invece freddato a colpi di arma da fuoco mentre Lourdes Maldonado è stata assassinata, sotto casa sua, da un killer sceso con indifferenza da un taxi. Questi sono solo alcuni dei tanti nomi di giornalisti che hanno pagato con la vita la scelta di non chiudere gli occhi davanti ai casi di corruzione e malaffare di politici e trafficanti locali.

«Quando chi usa i microfoni deve affrontare i proiettili è l'intera società a perdere» ha detto Jesús Peña, vice rappresentante in Messico dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, in occasione dell'uccisione di Jacinto Romero, giornalista radiofonico freddato da due sicari il 18 agosto 2021. Informare, ricostruire e spiegare la guerra tra bande di narcotrafficanti che insanguina il paese, infatti, può voler dire perdere la vita.

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Violenza - modus operandi per censurare l'informazione

Secondo l'organizzazione non governativa Articulo, che si occupa della sicurezza dei giornalisti, «la violenza si è trasformata in un vero modus operandi per censurare l'informazione. Ogni giorno un giornalista viene aggredito dai narcos e, soprattutto, dai funzionari pubblici, dai poliziotti, dagli eletti locali». I nemici giurati dei giornalisti messicani, infatti, oltre ai trafficanti di droga, sono tutti coloro che sono complici delle bande di criminali, tra cui politici, militari, giudici e imprenditori che temono di veder smascherate le proprie attività illecite.

Tale situazione di pericolo è particolarmente sentita in provincia, dove la corruzione politica è dilagante, mentre nelle grandi città, grazie alla presenza dei poteri federali e dei media nazionali, i giornalisti riescono a difendere, pur con grande sforzo, il proprio diritto alla libertà d'informazione. Negli ultimi tempi, molti di loro hanno deciso di trasferirsi a Città del Messico, una megalopoli abitata da 20 milioni di abitanti che dovrebbe garantire un certo anonimato.

In questo senso, l'evento spartiacque viene indicato nell'uccisione, nel 2012, della giornalista Regina Martinez Perez, davanti alla propria abitazione a Xalapa, nel Veracrus. La giornalista era molto famosa per le sue indagini sulla corruzione e la collusione tra i politici e le bande di narcotrafficanti e il suo assassinio fece molto scalpore perché, come raccontato dall'attivista Marcela Turati, «era la prima volta che colpivano una giornalista di una testata nazionale, e che non si occupava di cronaca nera ma d'indagini politiche e sociali. Da allora abbiamo visto arrivare nella capitale decine di reporter che fuggivano da minacce di morte nei loro stati».

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Città del Messico

Negli anni, anche nella capitale messicana la situazione è cambiata, come è dimostrato dal tentativo di omicidio subito, lo scorso 15 dicembre, dal noto commentatore televisivo Coiro Gomez Leyva che si è miracolosamente salvato perché viaggiava su di un auto blindata.

Anche Martha Olivia Lopez, giornalista di Matamoros, nello stato di Tamaulipas nel Messico settentrionale, aveva pensato di trovare riparo, insieme alla figlia, a Città del Messico dopo aver denunciato, nel 2011, la corruzione di una dirigente sindacale della propria cittadina.

A causa di questa scottante rivelazione era stata minacciata di essere stuprata e uccisa insieme alla figlia, motivo per cui aveva preferito trasferirsi nella megalopoli, dove però ha dovuto fare i conti con le minacce e le ritorsioni riservate a tutti i cronisti giudicati scomodi dalle organizzazioni dei narcotrafficanti che, spesso, sono il braccio armato di alcuni rappresentanti delle istituzioni governative messicane.

Messico - un luogo pericoloso per i giornalisti 

Il Messico occupa stabilmente, da tempo, le prime posizione della classifica del luogo più pericoloso dove esercitare la professione giornalistica. Secondo i dati diffusi lo scorso anno, nel Paese si registra almeno un attacco contro giornalisti o mezzi di comunicazione ogni 14 ore. Sempre nel 2022, in Messico sono stati uccisi più giornalisti che in qualsiasi altro paese al mondo, anche quelli in guerra come la Siria o Ucraina.

La cosa non sorprende, se si considera che è lo stesso presidente, Andres Manuel Lopez Obrador, a farsi portavoce di una campagna denigratoria contro la stampa non allineata. Ogni mercoledì sera, infatti, va in onda una trasmissione dal significativo titolo "chi è chi nelle bugie della settimana?" in cui, di fatto, si mettono alla gogna tutti i giornalisti ritenuti dissidenti nei confronti del potere politico.

Ad aggravare tale situazione vi è il fatto che tali assassinii rimangono impuniti nella maggior parte dei casi. Come spiegato da Sara Mendiola, avvocata di Propuesta civica, rete di giuristi che fornisce aiuto legale a giornalisti e difensori dei diritti umani sotto attacco, «spesso non si fanno indagini sulla scena del crimine, le minacce pregresse restano ignorate, le indagini si trascinano senza esito: di rado si trova un colpevole, tanto meno un mandante».

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Un sistema politico fondato sul clientelismo 

Per Anabel Hernandez, giornalista investigativa, la causa di tale impunità risiede nel «sistema politico fondato sul clientelismo e scambi di favori e da un sistema giudiziario che non ha alcuna indipendenza dal potere esecutivo (...). Non sappiamo chi siano gli assassini ma sappiamo che le intimidazioni provengano più spesso dalle autorità pubbliche che dai cartelli criminali».

Se i giornalisti non vengono uccisi, capita che scompaiano nel nulla lasciando le famiglia nella dolorosa attesa di conoscere le sorti del proprio congiunto. Se poi non vengono uccisi o fatti sparire, i giornalisti vengono minacciati, vessati, denigrati fino a che sono stati costretti a ritirarsi dalla professione o a scegliere, anche dietro compenso monetario, di non parlare di certi argomenti scomodi alle bande criminali e ai propri amici corrotti.

Lo scorso 16 gennaio, su invito della Conferenza episcopale messicana, si è pregato per chiedere protezione per i giornalisti e per coloro che difendono i diritti umani. Una iniziativa che parte dalla consapevolezza della gravità della situazione nel paese latino americano dove, però, sono in tanti a non volersi arrendere a questo stato di cose.

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Giornalisti che lottano

In Messico sono nate numerose reti e collettivi di giornalisti che denunciano le intimidazioni subite, svolgono indagini e attività d'informazione e prestano soccorso ai colleghi minacciati o sfollati nelle grandi città.

La prima rete in questo senso è Periodistas de a pie, giornalisti a piedi, nata nel 2007 a Città del Messico. Il nome, come spiegato dalla già citata Marcela Turati Munoz, una delle sue cofondatrici, fa riferimento al fatto che «scrivevamo di povertà e questioni sociali».

Formata, in un primo tempo, prevalentemente da giornaliste impegnate a sviluppare un giornalismo d'indagine sulla realtà sociale messicana, la rete ha dovuto poi far fronte alle minacce di morte rivolte alle giornaliste stesse.

Come ricorda la Turati, «all'inizio sono stati presi di mira i cronisti che si occupavano di criminalità ma troppa attenzione dei mezzi d'informazione dava fastidio ai governi statali, che volevano negare la violenza». La rete si è impegnata, negli anni, a organizzare corsi di formazione per «narrare la violenza dal punto di vista delle vittime, sui diritti umani oltre che sulla sicurezza digitale e su come organizzarci di fronte alle minacce crescenti».

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Denunciare può costarti la vita 

«Uccidere un giornalista - ha dichiarato Edith Olivares Ferreto, direttrice di Amnesty International Messico - significa uccidere il suo messaggio e mandarne uno diametralmente opposto all'intera società: denunciare quello che non va, in questo paese, può costarti la vita».

Intervistata da MicroMega lo scorso anno, Ferreto aveva confermato che «la situazione è di altissimo rischio e lo Stato messicano non sta facendo nulla per garantire la sicurezza delle persone che lavorano nel mondo dell'informazione».

In Messico è una guerra in corso, e lo Stato e le bande di narcotrafficanti troppo spesso sparano verso lo stesso bersaglio: ennesimo giornalista che coraggiosamente decide, nonostante i rischi, di non chiudere gli occhi e denunciare ciò che non funziona nel proprio paese.

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