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Un nuovo capitolo della guerra di Bolsonaro agli attivisti

Cosa si nasconde dietro l'uccisione di un giornalista e un antropologo che lottavano per gli indigeni della foresta
Cosa si nasconde dietro l'uccisione di un giornalista e un antropologo che lottavano per gli indigeni della foresta

Il giornalista britannico Dom Phillips e l’antropologo brasiliano Bruno Pereira Araújo sono morti. La notizia, tanto temuta, è stata confermata dalla polizia brasiliana che, il 15 giugno scorso, aveva dichiarato di aver trovato dei resti umani nella foresta su indicazione di colui che è stato arrestato come esecutore del delitto.

REUTERSIl giornalista Dom Philips, 57 anni, ucciso nella giungla amazzonica

Bolsonaro: «Incauti» - Una lista, quella delle persone uccise per difendere l’Amazzonia, che continua ad allungarsi a dismisura nell’indifferenza, quasi generalizzata, delle autorità locali. Paulo, Paulino Gujajara, Ari Uru, Alex Lopes Guarani e Arokona Yanomami sono solo alcuni degli indigeni uccisi negli ultimi anni e i cui assassini non sono mai stati consegnati alla giustizia. Il presidente del Brasile, alla notizia della scomparsa dei due attivisti, si è espresso dicendo che «faremo di tutto per trovarli ma dobbiamo dire che si sono avventurati in una zona pericolosa, la loro è stata una spedizione incauta». Dopodiché il presidente si è recato a Manaus, la capitale dello Stato dell’Amazzonia, per partecipare a due eventi di stampo religioso senza neanche menzionare i nomi del giornalista e dell’attivista uccisi. Dom Phillips era un giornalista freelance, nato 57 anni fa a Merseyside nella Contea di North West, nel Regno Unito. Come raccontato dal Guardian, nel 2007 Phillips si era trasferito in Brasile per ultimare un suo libro sulla cultura rave ma, innamoratosi del Paese, aveva deciso di stabilirvisi in pianta stabile, diventando corrispondente dall’estero per giornali quali il Washington Post e lo stesso Guardian.

REUTERSIl presidente brasiliano Jair Bolsonaro riceve un ornamento indigeno

In lotta per gli indigeni - Da anni aveva concentrato la sua attenzione sull’Amazzonia e sui drammatici problemi che affliggono la foresta che, un tempo, veniva definita "il polmone verde del nostro Pianeta". Risale al 2018 il suo incontro con Bruno Pereira Araújo, un antropologo brasiliano di 41 anni, sposato e padre di due figli, che lavorava per il Funai, una organizzazione governativa che si occupa di proteggere le 235 tribù indigene presenti in Brasile. In qualità di capo divisione, Pereira aveva trasformato le aree abitate dagli indigeni in riserve protette, di modo che tali persone fossero protette dal contatto con la società esterna ma il compito si era rivelato particolarmente ostico dopo l’elezione del presidente Bolsonaro il quale non ha mai fatto niente per nascondere il proprio disprezzo nei confronti delle popolazioni indigene. Parliamo di un uomo che, in un suo discorso, si era pubblicamente rammaricato che la cavalleria brasiliana non fosse riuscita a portare a termine la propria opera di sterminio così come avvenuto in nord America a danno dei nativi americani.

REUTERSProtesta degli indigeni di Atalaia do Norte che chiedono più sicurezza dopo l'ultima scomparsa.

Una terra ambita da molti - Gli indigeni dell’Amazzonia si trovano in costante pericolo, non solo per meri fattori culturali ma per sostanziali ragioni economiche. L’Amazzonia è una terra ambita per cacciatori, taglialegna, minatori e pescatori, oltre che per i trafficanti di droga che prosperano protetti dalla giungla. Bolsonaro non ha mai nascosto il proprio sostegno a tutti coloro che vantavano mire economiche nell’area e ciò portò Bruno Pereira, dopo aver subito una serie di pressioni esterne, soprattutto da parte delle lobby agricole, a dimettersi dal proprio ruolo e unirsi ad Univaja, una organizzazione che tutela i diritti degli indigeni che abitano le terre poste al confine tra il Brasile ed il Perù. Proprio qui, nella riserva indigena della valle di Javari, si erano recati, lo scorso 5 giugno, Pereira e Phillips con lo scopo di intervistare le squadre di pattuglie indigene che tentano di reprimere il fenomeno della caccia e della pesca illegali. E qui hanno trovato la morte.

REUTERSLa giungla vicino a Porto Velho (Rondonia) distrutta dal fuoco

Una sorte quasi segnata - Per ora sono tre le persone arrestate per l’omicidio dei due attivisti: Amarildo Oliveira, detto ‘Pelado’, suo fratello Oseney Oliveira, detto ‘Dos Santos’ e Jefferson da Silva Lima, noto come ‘Pelado da Dinha’, che si è costituito spontaneamente alla stazione di polizia di Atalaia do Norte. Secondo l’esito degli esami balistici i due uomini sarebbero stati uccisi con delle armi da fuoco. Il movente del delitto sarebbe, invece, la pratica della pesca illegale nella foresta amazzonica, su cui i due attivisti stavano indagando raccogliendo testimonianze, filmati video e fotografie. In genere, quando si trovavano sul campo, Pereira e Phillips si facevano scortare da un gruppo di giovani della comunità indigena, per non cadere vittima di attacchi da parte dei narcos o altre bande criminali, ma quel 5 giugno i due hanno deciso di partire in barca da soli dal villaggio di San Rafael diretti verso Atalaia do Norte. Un percorso di 70 km da percorrere in circa 2 ore. Una sorte quasi segnata dato che entrambi erano fortemente osteggiati per il proprio impegno a favore delle popolazioni indigene e Pereira aveva ricevuto minacce di morte anche pochi giorni prima di morire.

REUTERSUna miniera illegale d'oro in Amazzonia

La responsabilità delle autorità - «Il governo sta cercando di criminalizzare Univaja - aveva dichiarato di recente Pereira all’Ong Survival, movimento internazionale per i diritti dei popoli indigeni - persecuzioni e intimidazioni non sono rivolte solo a me, siamo in tanti, ma tutto questo spero finirà. Sono stati quattro anni molto intensi. Mi attaccano ma non mi arrenderò». Sabato 18 giugno si è svolta, a San Paolo del Brasile, una veglia funebre per il giornalista e l’attivista uccisi che si è presto trasformata in una manifestazione di piazza per chiedere di far luce su ciò che realmente si cela dietro la loro morte. Paulo Marubo, leader indigeno e coordinatore di Univaja, ha affermato di non credere alla ricostruzione della polizia federale perché «semplicemente non vogliono indagare. Questo mi fa capire che vogliono evitare ogni rischio e ogni responsabilità». Anche gli attivisti della Ong Survival International si scagliano contro la politica perseguita dal presidente brasiliano Jair Bolsonaro alla luce del fatto che «mentre i presunti assassini si trovano ora in stato di fermo, è chiaro che a creare le condizioni perché si verificasse questa tragedia è stato il governo brasiliano. I tentativi genocidi di aprire le terre indigene agli invasori e premiare i criminali con l’impunità, hanno portato sia a livelli di deforestazione sempre più alti sia a violenze spaventose contro coloro che vi si oppongono».

REUTERSUn indigeno Yanomami segue gli agenti impegnati contro l'estrazione illegale di oro

Una pista per la cocaina - Gli attivisti di Survival hanno inoltre denunciato la totale inerzia delle autorità e della polizia federale nello svolgimento delle indagini, dato che è stato proprio il team di monitoraggio della Ong a trovare per primi l’area su cui concentrare tutte le ricerche. «Nella valle del Javari - denuncia Survival - vive la più alta concentrazione di popoli "incontattati" al mondo ma, negli ultimi anni, quest’area ha subito un notevole aumento del traffico di droga, delle attività minerarie e della deforestazione illegale». Oltre alle incursioni dei "garimpeiros", i minatori clandestini che scandagliano i fiumi alla ricerca dell’oro, e dei tagliatori di alberi, la zona è battuta da gruppi di narcotrafficanti che fanno entrare la cocaina in Brasile dalla Colombia e dal Perù. L’Amazzonia è una terra martoriata, lasciata in pasto a coloro che hanno a cuore solo i propri interessi economici e non certo la salvaguardia di uno scrigno di biodiversità unico al mondo.

REUTERSDeforestazione anche per creare piste d'atterraggio per i trafficanti di droga

«Il cielo ci cadrà addosso» - La situazione, come detto, è andata a peggiorare con l’elezione di Bolsonaro nel 2019. Nel mese di agosto, ad appena 8 mesi dalla sua elezione, si sono registrati migliaia di incendi in Amazzonia, soprattutto negli stati di Mato Grosso e Parà, quelli che presentano la maggiore penetrazione di attività agricole estensive. Si stima che il 90% di essi sia di origine dolosa, e siano provocati proprio da coloro che hanno interesse a conquistare nuovi terreni da destinare alla coltivazione o al pascolo degli allevamenti bovini. Dal 1993 al 2013 l’allevamento di bestiame di Amazzonia è cresciuto del 200% raggiungendo i 60 milioni di capi. Un ulteriore causa di devastazione è rappresentata dal boom dell’attività mineraria spinta anche dall’aumento del prezzo dell’oro. Ciò ha, come ulteriore effetto collaterale, una contaminazione ambientale molto alta a causa dell’utilizzo del mercurio per la separazione della polvere d’oro dagli altri elementi. Se tutto ciò può sembrarci un problema lontano da noi o di cui non siamo colpevoli, vale la pena ricordare che a beneficiare di questa situazione sono anche le grandi multinazionali, da Carrefour a McDonald’s, Nestlè o Burger King di cui molti di noi si servono. Come recita un vecchio adagio indios «gli alberi sono le braccia che sorreggono il cielo. Quando avremo tagliato l’ultimo albero, il cielo ci cadrà addosso». E nessuno riuscirà a chiamarsi fuori.


Appendice 1

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REUTERSI due attivisti morti diventano simbolo della protesta contro il governo Bolsonaro

REUTERSIl giornalista Dom Philips, 57 anni, ucciso nella giungla amazzonica

REUTERSIl presidente brasiliano Jair Bolsonaro riceve un ornamento indigeno

REUTERSProtesta degli indigeni di Atalaia do Norte che chiedono più sicurezza dopo l'ultima scomparsa.

REUTERSLa giungla vicino a Porto Velho (Rondonia) distrutta dal fuoco

REUTERSUna miniera illegale d'oro in Amazzonia

REUTERSUn indigeno Yanomami segue gli agenti impegnati contro l'estrazione illegale di oro

REUTERSDeforestazione anche per creare piste d'atterraggio per i trafficanti di droga