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BELLINZONAQuando lo smartphone serve a farti ballare

16.07.14 - 06:00
Una danza che nasce dal telefonino applicato al corpo: in anteprima uno spettacolo di Lorena Dozio, artista ticinese che da dieci anni vive e lavora a Parigi.
Quando lo smartphone serve a farti ballare
Una danza che nasce dal telefonino applicato al corpo: in anteprima uno spettacolo di Lorena Dozio, artista ticinese che da dieci anni vive e lavora a Parigi.

BELLINZONA - Non poteva che entrare anche nei teatri. Dopo esser penetrato in ogni piega del quotidiano, venerdì lo smartphone salirà anche sul palco, protagonista per la prima volta assieme a Lorena Dozio. Classe 1979, ticinese di Losone che da dieci anni vive e lavora come danzatrice a Parigi, per l’anteprima svizzera del suo nuovo spettacolo ha scelto Bellinzona, venerdì alle 21.45 e alle 23 al teatro San Biagio. “ALibi”: cioè un altrove che una creatura ibrida, una sorta di cyber woman senza veli, percorre attraverso il moto del corpo, decodificato e tradotto in musica da un telefonino.

Smartphone e danza: Lorena, in che modo si combinano?
"L’idea è rendere visibile l’invisibile. Il dispositivo è un’invenzione del compositore Daniel Zea, che trasforma i dati spaziali in dati sonori. Io ho un iPhone applicato al bacino: attraverso i movimenti captati dagli accelerometri, sensori analoghi a quelli che spostano l’immagine in verticale o orizzontale a seconda dell’orientamento del telefono, genero musica, che poi viene gestita in tempo reale da Daniel, in digitale. La musica nasce dallo spostamento: è il risultato sia della posizione del corpo, sia dell’accelerazione".

Lo stesso spettacolo, ma sempre diverso?
"Esatto. È come se io, con Daniel Zea, suonassi live. È la danza a generare la musica: e danzando io ascolto la musica che genero. C’è una scrittura musicale e una coreografia che sono fisse: ma siccome i miei movimenti non sono mai gli stessi, la musica cambia. Cambia l’intensità, cambiano i suoni. Diventa anche un gioco fra me e Daniel".

Per il pubblico che cosa cambia?
"Il pubblico percepisce che c’è qualcosa di diverso, anche se spesso non si rende conto di che cosa sia.  Cambia anche la diffusione del suono, che viene gestito da quattro casse. A dipendenza degli assi del corpo, il suono gira attorno agli spettatori".

Che cosa viene prima: la musica o la danza?
"Si parte da un principio coreografico che io compongo. Poi si lavora insieme, utilizzando il dispositivo di generazione del suono".

A che scopo?
"Amplificare il movimento, renderlo visibile. Il telefono è uno strumento, non è l’obiettivo".

La tecnologia come aiuto e perfezionamento dell’arte?
"Nel mio caso, crea un’altra dimensione. Una dimensione che il movimento, da solo, non possiede. Permette di amplificare la percezione. ALibi non vuole essere una dimostrazione del potere della tecnologia. Piuttosto, un modo per realizzare un proposito estetico: lavorare su come si può incorporare un altrove, un qualcosa che non si sa bene che cosa sia. Questo è anche il senso dello spettacolo".

È la tua prima esperienza di questo tipo?
"La seconda. La prima è stata Levante, presentato per la prima volta all’abbazia di Royaumont e dedicato alla lievitazione del corpo, con Carlo Ciceri e Daniel Zea. La ricerca è cominciata da lì".

Proseguirà?
"Ho già un paio di progetti dove sviluppo questa interazione". 

Arte e tecnologia: un connubio che merita di essere approfondito di più?
"Lo si sta già facendo, anche se spesso non ce ne si rende conto. Forse prima era un’esperienza più avanguardistica, di nicchia. Ciò che si sta sviluppando è l’analisi della relazione che si può avere con la tecnologia. A me all’inizio non interessava: fino a che ho scoperto che è un mezzo per rendere visibili livelli invisibili all’occhio, attraverso l’udito. Lo smartphone ha reso tutto questo popolare: grazie ad esso, la dimensione dei numeri sta entrando sempre di più nella vita quotidiana".

Farla entrare nei processi creativi non contraddice il senso dell’arte?
"Tutta l’arte è basata sulla tecnica. L’abilità è non mostrarla. Alla creatività pura, assoluta, io non credo. Serve una struttura, un recinto in cui lavorare. Se lo spazio è troppo aperto, si finisce per perdersi. La tecnica, in fondo, è solo un modo per accedere ad altri livelli creativi".

Il pubblico finora è passivo, quasi incosciente: il prossimo passo sarà coinvolgerlo in modo attivo?
"C’è un’apertura di possibilità. Con il fatto che oggi la tecnologia è a basso costo e più diffusa, gli artisti possono inventare nuove possibilità. Quella dell’interazione con il pubblico lo è. Poi dipende dai progetti, dallo scopo della ricerca. Si fanno già tante cose, forse in Ticino non ne arrivano abbastanza. Rispetto al 2000, quando si faceva molto, c’è stato quasi un declino. Il telefono non è uno strumento nuovo: è uno strumento più accessibile e, da parte mia, ideale per rispondere alle domande che pongo".

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