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NEGLI IMMEDIATI DINTORNIUna linea laterale

09.04.15 - 08:00
Scrittori e artisti raccontano i territori di confine tra la Svizzera e l'Italia attraversato dalla ferrovia TILO
Una linea laterale
Scrittori e artisti raccontano i territori di confine tra la Svizzera e l'Italia attraversato dalla ferrovia TILO

Sembrava uno scherzo ma non c’era proprio niente da ridere. Infatti non risi e nemmeno maledissi la sorte che avrebbe potuto favorirmi. Tra me riflettei che avrebbe potuto anche andarmi peggio (e un peggio c’era, anche se non immaginavo dove si potesse nascondere), quindi dovevo solo essere contento che mi fosse finalmente stato affidato l’argomento per la mia tesi di laurea.

L’allora direttore della clinica psichiatrica presso la quale ero allievo interno non poteva certo sapere che assegnandomi l’argomento da trattare, le demenze pre-senili, patologie allora all’alba della conoscenza, ma soprattutto la sede dove il relatore che mi avrebbe seguito lavorava, aveva allungato la tratta che pressoché quotidianamente il sottoscritto studente di campagna doveva compiere per assolvere il suo destino studentesco.

La partenza da casa avveniva sempre al solito orario con quel solito primo treno del mattino: cinque e quattordici l’orario, sempre scrupolosamente rispettato, a onor del vero, sia da lui che da me.

Singolare convoglio, sorta di metafora viaggiante della fatica del vivere e dell’oblio del sonno: era infatti quasi totalmente occupato da operai che raggiungevano il posto di lavoro godendo ancora, per quel che consentiva la brevità o meno del tragitto, di quel residuo di sonno lasciato sotto le coltri domestiche, e sdraiati lunghi quant’erano sulle panche di quelle carrozze, oggidì rugginose su qualche binario morto e sepolto oppure vanitosamente lustre per dare conto alle giovani generazioni di quanto si sia evoluto il trasporto su strada ferrata. Guai naturalmente a svegliarli per reclamare un boccone di sedile che la tassa ferroviaria mi dava diritto ad avere. Bastò una volta, e le minacce e gli insulti incassati, a convincermi che non sempre il capitale riesce ad aver ragione: a volte forze superiori lo rendono inservibile, quando non addirittura ridicolo, agli occhi stessi di chi lo possiede.

Era un viaggio incontro all’alba con la gratifica di un sedile tra Lecco e Monza per poi finire nella frenesia non ancora multietnica ma comunque olezzante di un tram che si mutò, stante la necessità, in metropolitana per raggiungere la stazione del benemerito, stellato general Cadorna, vera e propria trincea da cui partivo per la scoperta delle Ferrovie Nord: destinazione Affori, località di cui si aveva notizia solo per la presenza di una banda musicale a sua volta musicata grazie all’eccellenza del suo tamburo principale.

Se fino a questo punto il viaggio poteva avere caratteri di scoperta della città, settori e tragitti che mai avrei conosciuto se non spinto, obbligato dalla necessità, da quel momento assumeva invece tutt’altra sostanza, iniziatico sentiero verso il sospetto di ciò che era, è e sarà quella malattia o disagio che dir si voglia che mi intrigava tanto da studente, non solo per il mistero in cui era avvolta ma anche perché nessuno può dirsene immune, e io naturalmente tra i tutti.

Quella piccola ferrovia che non conoscevo fu il tramite, quel piccolo treno, diverso da quello che ero abituato a prendere. Quelle facce addirittura: visi sconosciuti, e non poteva essere altrimenti, ma che mi meravigliavano perché ormai conoscevo abbastanza bene i miei compagni di viaggio delle ore antelucane e pure alcuni di quelli che prendevano il mio stesso tram.

Ero disperso invece adesso. Tra volti ignoti, su una strada altrettanto sconosciuta che mi portava dentro una cintura di periferia e poi ancora oltre, sbucando a un certo punto nella visione di campi silenziosi che sembravano chiedersi cosa ci facessero lì.

Lo straniamento di quel piccolo viaggio in treno era tale che le prime volte rischiai di non scendere alla stazione di Affori e riflettevo che forse tutto era davvero uno scherzo, combinato a partire proprio dall’assegnazione di quella tesi e di quel luogo dove fare le ricerche necessarie, per mandarmi dolcemente incontro al mio destino.

Su una linea così laterale, ragionavo, che attraversava stazioni in cui non risuonavano gli altisonanti nomi delle più grandi città d’Italia, non potevano che viaggiare persone come me, destinate all’oblio

sin dalla nascita. E a un certo punto, senza che nessuno potesse fare alcunché, il treno si sarebbe fermato a una certa stazione forse senza nome, saremmo scesi e ci saremmo accorti che la linea ferrata lì finiva, tranciata senza complimenti, due dita di ferro protese a mo’ di corna verso il niente.

Col passare del tempo però, con l’abitudine, l’uso, quell’impressione spaventevole ma comunque suggestiva si mutò in paesaggio mentale di favola e mi venne spontaneo chiudere gli occhi per il breve tragitto, immaginando che su quel treno potessero salire solo i destinati a conoscere il paesaggio che stava fuori dai confini della città, liberi di tenere per sé il segreto oppure di raccontarlo a rischio di non essere creduti. Oppure, come coloro che risiedevano allora nel luogo verso il quale i miei passi mi conducevano per motivi di studio, a essere ritenuti folli e come tali comodamente etichettati.

 

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