In un'epoca dove la parola d'ordine è flessibilità, è ancora attuale? Secondo gli economisti sì, anzi a maggior ragione. Specie in Svizzera, dove la legge nazionale non tutela abbastanza.
BIOGGIO - Si protesta per «la politica intrapresa dall’azienda, che mira a non rinnovare il contratto collettivo di lavoro». Ma il sit-in organizzato ieri dai sindacati Ocst e Syndicom alla Südpack è solo l'ultimo, e forse meno clamoroso, esempio di una tendenza al rifiuto del Ccl. Che coinvolge anche gli architetti, preoccupati da salari al ribasso, o i benzinai, ostili a uniformare gli stipendi minimi dei dipendenti delle stazioni di servizio.
Ma ha davvero senso parlare di Ccl oggi, in un'epoca in cui addirittura il termine di flessibilità è quasi obsoleto, comunque troppo generico? Dove fanno capolino ogni giorno nuove soluzioni occupazionali, condizionate magari della paura dei robot a venire? E mentre da più parti, anche accademiche, si invita a cambiare, evolversi; assecondare una società che non torna indietro, cercando piuttosto di trarre il meglio da quello che c'è, invece di recriminare per ciò che non c'è più? Secondo Amalia Mirante, docente di economia Usi/Supsi, senza dubbio: anzi, soprattutto ora. «Credo che la contrattazione fra le parti sociali abbia ragion d'essere ancora di più adesso che in passato».
E quale?
«La pace sul lavoro è sempre stata una peculiarità elvetica, che ha dato vigore all'economia. La capacità di trovare accordi prima di arrivare al conflitto ha determinato livelli molto elevati di produttività. Perché non si tratta solo di una giornata di lavoro persa, ma da un'interruzione della produzione che va poi a minare anche la fiducia del mercato».
Non è anacronistico, in un mondo del lavoro che cambia?
«Il mondo del lavoro che cambia è proprio la causa della necessità di un contratto collettivo. Non dobbiamo vederlo come una lotta tra le parti, ma come una tutela del lavoro stesso, a favore di un mercato sottoposto a pressioni enormi e a una concorrenza spietata. La flessibilità non è messa in discussione dal Ccl, che anzi prova a darle organizzazione e confini, affinché non diventi un peso».
È l'unica maniera?
«Nel nostro Paese, fondato sul liberismo, non abbiamo una legge in grado di porre vincoli ristretti. Dunque è necessario utilizzare un altro strumento, che garantisca anche più omogeneità sul territorio».
Sta dicendo che in Svizzera il contratto collettivo serve più che altrove?
«Altrove, la legge nazionale magari è più specifica e offre maggiori tutele: così il contratto collettivo serve solo a definire il salario. Da noi, invece, c'è grande flessibilità sul numero di ore lavorate, per esempio. O la protezione dal licenziamento: qui è praticamente inesistente. Esistono realtà dove è impossibile risolvere il contratto per ragioni legate all'andamento economico o per ingiusta causa. In Svizzera la legge lascia al contrario una cornice piuttosto vasta: è necessario dunque trovare poi accordi al suo interno, anche in vista di una competizione sana».
Südpack ha dichiarato che offrirà condizioni di lavoro migliori di quelle che uscirebbero da una contrattazione con i sindacati. A questo punto le domando: davvero il Ccl è sempre la soluzione migliore? Non può rivelarsi anche limitante?
«A memoria, non mi sovviene di casi in cui senza contratto collettivo è andata meglio. L'azienda può pur sempre migliorare il contratto collettivo che sottoscrive: nessuno glielo vieta. Se ancora esistono due associazioni, è perché il singolo non ha il medesimo potere contrattuale dell'azienda. L'unità degli individui crea un contrappunto adeguato».
Una volta erano solo gli operai. Ora anche gli intellettuali lottano per il Ccl. Che cosa sta succedendo?
«È legato all'evoluzione del settore economico. Dalla società industriale si è passati a una società di servizi: le professioni legate al terziario sono incrementate e con esse la necessità di una regolamentazione anche lì. Oggi c'è molta più mobilità, disponibilità a lavorare a condizioni al ribasso. Si genera una concorrenza fra professionisti e si gioca sul loro salario».
C'è chi la chiama flessibilità. Perché ne abbiamo tanta paura?
«Si ha paura quando diventa incertezza. La flessibilità è un vantaggio, se è una scelta del singolo. Se è sintomatica di un'azienda che non può permettersi soluzioni stabili, spaventa. E gli effetti si vedono subito. Non si spende più».
Quanto incide la paura sulla voglia di Ccl?
«Incide. E spesso frena il potere contrattuale fra le parti».
Quando le cose sembrano difficili, ci si appella alla funzione sociale delle aziende. Esiste ancora?
«Io resto convinta che la maggior parte delle aziende elvetiche assolva al suo ruolo sociale: a supporto dell'economia, della popolazione e dello stato. Ci sono eccezioni: soprattutto da parte di aziende che non hanno la nostra cultura, dove il ruolo nella formazione degli apprendisti e nella formazione continua è un modello».
Compatibile con la flessibilità?
«Certo».
E allora perché tanta ostilità al Ccl?
«Sotto sotto, le regole non piacciono a nessuno. Poi, l'ostilità fa parte del gioco della contrattazione. Ma non penso che le nostre aziende siano davvero contrarie a garantire condizioni dignitose ai propri dipendenti. È logico:il contratto collettivo viene vissuto come un vincolo e in parte un'imposizione sopra quella che è considerata una proprietà privata. Ammettiamolo: non amiamo le regole. Nemmeno quelle che ci diamo da soli».