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CORRISPONDENZE - MESSICOQuante lacrime dietro a quel muro di sbarre

22.01.14 - 08:20
"Qui è dove s’ingabbiano i sogni". Jack Filippini, di Losone, ci parla della frontiera fisica tra gli USA e il Messico
Jack Filippini
Quante lacrime dietro a quel muro di sbarre
"Qui è dove s’ingabbiano i sogni". Jack Filippini, di Losone, ci parla della frontiera fisica tra gli USA e il Messico

CITTA' DEL MESSICO - In Ticino siamo invitati quotidianamente a confrontarci con lo spinoso tema dell’immigrazione. Che siano frontalieri o asilanti poco importa. È consuetudine leggere sui giornali articoli sulla materia. Tenendo conto delle diverse distanze e proporzioni, anche negli Stati Uniti l’immigrazione è sempre d’attualità. Soprattutto in uno Stato di frontiera come la California, non è necessario aprire un giornale per rendersene conto; basta scendere in strada per entrare in contatto con questa “immigrazione”, dai lineamenti della gente allo spanglish (ibrido nato dall’incontro tra lo spagnolo e l’inglese) parlato dalla gente. D'altronde, la frontiera non è poi così lontana, specialmente se pensiamo a città come Los Angeles e San Diego, ancora oggi terra promessa per milioni di latinos. Da San Diego al Messico ci sono poche fermate di tram, meno di mezz’ora di macchina. La frontiera si attraversa a piedi e dall’altra parte c’è Tijuana, città del peccato per i giovani californiani che vi si riversano a frotte per fare le prime esperienze con l’alcol (ma non solo).

A Tijuana ci sono stato quattro volte, l’ultima solo poche settimane fa. E' stato proprio durante l’ultima visita che mi sono ritrovato in un luogo dove l’immigrazione sta di casa. In una casa che non c’è. Con alcuni amici eravamo diretti sulle spiagge della città ed è stato puramente per caso che il taxi ci ha lasciato a due passi dal Friendship Park (il Parco dell’amicizia). Nonostante gli statunitensi gli abbiano affibbiato un nome ameno, niente in questo angolo di cemento e alte sbarre in riva al Pacifico ricorda l’allegria o fa pensare all’amicizia. Un nome scelto sembra quasi con sarcasmo. Avete presente il muro del pianto di Gerusalemme? Ecco, in questo caso il muro è fatto di sbarre d’acciaio che terminano nell’Oceano, dove l’acqua à già troppo alta per poter stare a galla camminando. Il muro in questione fa parte della frontiera fisica tra gli Stati Uniti e il Messico e lì si danno appuntamento famigliari e amici che, per ovvie ragioni politiche, non possono ricongiungersi in uno dei due Paesi. Si trovano per parlare, piangere e trascorrere un momento vicini, nonostante le fredde sbarre a dividerli. Dalla parte di Tijuana, messicani che non riusciranno mai ad attraversare la Linea – nome con il quale è conosciuta la coda che bisogna fare per passare a piedi la dogana in direzione degli USA -; dalla parte di San Diego, messicani che ce l’hanno fatta, ma che non hanno i documenti in regola per poter riattraversare la frontiera. Con ogni probabilità immigranti illegali che grazie a un volontario “vuoto legislativo” della California potranno restare nel Paese fino a che non commetteranno qualche reato. La zona, sovrastata in territorio nordamericano da una collinetta, è controllata da poliziotti armati di mitra. Non sia mai che a qualcuno, preso da un impeto di libertà, cerchi di attraversare la frontiera. E lo chiamano Paese della libertà…

Appena sceso dal taxi ho visto subito l’enorme muraglia, senza però farci troppo caso. Solo in un secondo momento, dopo aver letto i primi graffiti sulle sbarre e aver visto i poster giganti raffiguranti altre frontiere fisiche e “calde” del mondo, ho iniziato a farmi un’idea di dove ero finito. C’erano immagini di Belfast, del filo spinato tra le due Coree e tra l’India e il Pakistan; c’era pure una foto di quel che resta del muro di Berlino (un’immagine di speranza, chi lo sa). Davanti a me, la vecchia immagine di una muro simile a quello che avevo di fronte, con tre bare che ricordavano il numero di morti tra quelli che avevano tentato di inseguire un sogno. 2001, 367 morti; 2002, 371; 2003, 390 morti. E il conteggio continuava. È in quel momento che ti prende un'angoscia terribile, quando i nomi della gente scritti sull’acciaio ti fanno venire la pelle d’oca, quando l’interesse culturale e umano fa a botte con il pudore e la sensazione di essere un intruso, un invitato non gradito in una triste riunione famigliare. Poi guardi i mitra neri delle guardie e l’imbarazzo lascia posto alla rabbia. Senti che c’è qualcosa che non va in quel giardino senza erba ed è impossibile andarsene da lì tranquilli, restare indifferenti davanti al muro del pianto messicano. La testa si riempie di domande che resteranno senza risposta. E lo chiamano il Parco dell’amicizia…

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