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LUGANOLegnanesi da tutto esaurito: ora sono pronti per il grande schermo

16.04.14 - 07:00
Verso il sold out per le tre date di Lugano, non sanno cosa sia la crisi. "Qualche collega si lamenta del calo di pubblico, per noi è sempre un successo"
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Legnanesi da tutto esaurito: ora sono pronti per il grande schermo
Verso il sold out per le tre date di Lugano, non sanno cosa sia la crisi. "Qualche collega si lamenta del calo di pubblico, per noi è sempre un successo"

LUGANO - Parlare della crisi senza in fondo conoscerla. Non che lo spettacolo sia esente dai problemi della gente comune. Anzi: per questo i Legnanesi quasi quasi si vergognano. "E già, quando parliamo coi colleghi, 'Tu come va, ormai viene sempre meno pubblico', ci sentiamo in imbarazzo. A noi va bene, molto bene". L’anno scorso hanno portato 50mila spettatori solo al teatro Nazionale di Milano; a stagione si arriva in media a 150mila. "A Milano abbiamo fatto più dell’anno scorso", dicono. La crisi non li tocca, anche se la portano sul palcoscenico. O forse proprio per questo. "Il segreto è permettere alla gente di immedesimarsi. E farla ridere, staccarla per un paio d’ore dai problemi della quotidianità. Creare un oasi di pace". In tournée con 'La scala è mobile', arriveranno a Palazzo dei Congressi il 29 aprile, repliche il 30 e il 1° maggio. Un altro titolo che rimanda al repertorio dei primi Legnanesi, rinati nel 2004 dopo la morte di due fondatori, la spaccatura in due della compagnia e la decisione di tornare con lo stesso nome.

Un altro prestito dal passato: perché?
"Vogliamo mantenere il cordone ombelicale con I Legnanesi. Ormai siamo l’ultima compagnia a proporre la rivista. Riprendiamo i titoli delle vecchie riviste di Felice Musazzi, ma li riaggiorniamo. Le scene, i costumi, i balletti sono prodotti ex novo. Portiamo in scena l’attualità, di conseguenza cambia il contesto. In questo caso, per esempio, si parte sempre per l’America, ma nel lavoro di Musazzi si andava al porto di Genova: ora siamo a Malpensa".

Perché proprio oggi?
"Abbiamo la fortuna, o la sfortuna, che dal ’49 a oggi, cioè da quando esistiamo, le problematiche non sono mai cambiate. Più attuali di noi non c’è nessuno. Chi lo sa, magari un giorno riusciremo a portare sul palco l’euforia. Comunque cerchiamo sempre di trovare una morale positiva".

Sembrava la storia che si ripete, invece è la storia che non cambia.
"Esatto. La gestione dell’Italia è identica da 60 anni. Se è cambiata, è stato in peggio. Sono spariti i cortili, sarebbe un’utopia cercare di riportarli sul palco. Ma vogliamo mantenere vivo quello spirito. Far parlare ancora la gente, invece di lasciare che si chiuda in se stessa, perché è così che si può provare a risolvere i problemi".

Si va in America: qui non c’è alternativa?
"Si decide di partire, ma non si vuole partire: tant’è che non si partirà. Alla fine si cerca comunque di restare a casa nostra. Teresa viene fermata in dogana, dunque nemmeno Giovanni se ne va. Torna da lei e le dice questa frase romantica ma vera: “La mia America sei tu”".

C’è speranza?
"Ce lo auguriamo. La fuga di cervelli non è una bella cosa. A casa nostra non vogliamo tenerci solo le rogne: serve anche la bellezza".

In Svizzera però siete 'emigranti': come ci si sente?
"Benissimo. Ci veniamo una volta all’anno. C’è una grande affluenza: tre date e andiamo verso il tutto esaurito".

Quanto conta il dialetto in questo successo oltreconfine?
"Moltissimo. In Svizzera il dialetto è ancora una lingua parlata. Non a caso è sempre stata una tappa fissa per noi. Abbiamo cominciato con due date, poi ci siamo allargati a tre".

In Italia invece?
"Dicono che stia scomparendo, ma noi portiamo quasi 160mila persone a teatro ogni stagione. Abbiamo cercato di sdoganarci, di non autoghettizzarci. Siamo scesi a Firenze, al teatro Verdi abbiamo fatto il tutto esaurito. A Roma. Ora stiamo lavorando per arrivare a Napoli. Sarebbe un risultato storico".

Come riuscite a farvi capire?
"L’italiandialetto: in questo modo abbiamo agganciato i giovani. Vengono anche i bambini, le famiglie. Si va dai 5 agli 80 anni: perché riusciamo a far ridere senza essere volgari. Ci siamo dovuti adattare, anche a Milano il dialetto si parla sempre meno".

Giù dal palco lo parlate almeno voi?
"Neanche noi. È quasi bizzarro: pensa che i fan più sfegatati ti vedono e si sentono in dovere di parlarti in dialetto. Che ridere".

Una perdita?
"Un peccato. Dobbiamo mantenere vive le nostre tradizioni. Come dice la Teresa, un popolo che non ha memoria non ha storia".

C’è ancora spazio per il dialetto nel futuro?
"Speriamo. Altrimenti siamo rovinati".

Vi sentite mai anacronistici?
"Ni. Abbiamo attualizzato il prodotto, ringiovanito lo spettacolo. Cabarettizzato i personaggi, non facciamo comicità stantia. Il dialetto stesso si è evoluto, tante parole si sono perse. Bisogna stare attenti. Ma i cortili bisogna continuare a portarli sul palco, altrimenti il pubblico si lamenta. E bisogna lasciar fuori la politica".

Non fa più ridere?
"La gente è stufa, non le piace stare immersa in questo calderone di menate. E comunque non fa parte della nostra linea. A Torino c’è chi ci ha ringraziato perché siamo riusciti a far ridere senza parlare di Berlusconi".

Vi siete mai sentiti strumentalizzati da certa politica?
"Noi siamo una compagnia apolitica. Ma va ammesso: è grazie alla Lega se siamo arrivati alla Rai. Ai direttori di Rai 2 Antonio Marano e Massimo Ferrario".

Meglio il teatro o la tv?
"Teatro. Facciamo la tv perché serve, ma non ci piace. Vuoi mettere l’emozione del contatto con la gente? Che magari si addormenta in prima fila e tu la guardi mentre reciti, poi te la ritrovi in camerino a farti i complimenti? Il teatro resta il nostro habitat: la nostra vita. Ogni sera gente nuova, sentimenti diversi. Noi lavoriamo sulla spontaneità. I cameramen fanno a gara per lavorare con noi. Sempre buona la prima".

Non vi sentite anacronistici neppure perché a recitare sono solo uomini, come nel teatro degli albori?
"Fu un veto del cardinal Schuster, contrario alle rappresentazioni promiscue. E un’idea di don Antonio, il primo agente teatrale dei Legnanesi prima che fosse richiamato dalla curia. All’epoca i Legnanesi, nati in oratorio, si chiamavano Filodrammatica San Genesio. Agli spettacoli c’era poca gente, Musazzi andò da don Antonio e disse che per avere pubblico “ga voran i donn”. “E alura fala ti”, rispose lui".

Non è arrivato il momento di accoglierle sul palco?
"Assolutamente. Le donne portan guai. Noi le adoriamo, ma se siamo così longevi è perché non ci sono".

Vi sentite mai un po’ drag queen?
"No. Siamo uomini vestiti da donne, mica travestiti. La linea è sottile, ma esiste e non va superata. Non parliamo in falsetto, non siamo sopra le righe. Perderemmo buona parte del nostro pubblico".

Come si compone?
"Il 50-60% è over 50: il nostro zoccolo duro. Poi qualche ragazzo, diversi giovani 30-40enni. E tanti bambini: il futuro è garantito".

Al pubblico piace più ridere o immedesimarsi?
"Entrambe le cose. Siamo diventati un po’ le loro maschere lombarde. Ciascuno riconosce qualcuno della sua storia familiare, mentre ci guarda. Sappiamo di bambini che non vanno a letto se non dopo aver visto uno stralcio del nostro dvd, o ascoltato la canzone della Teresa. Presto potranno venire a vederci anche al cinema".

Prego?
"Stiamo preparando un film con Alberto Meroni, regista de La Palmira. Sarà girato tutto nella Svizzera Italiana, fra giugno e luglio nel 2015. Sarà nelle sale a febbraio marzo. Potrebbe avere anche comparse celebri".

Un’anticipazione?
"La cugina del Giovanni abita nel Canton Ticino, muore e gli lascia una casa in eredità. Ci si illude sia una gran villa, invece ci si ritrova di nuovo in un cortile".

Siete nati in oratorio, vi ha condizionato un cardinale, proponete spettacoli i cui titoli rimandano al Vangelo: che rapporto avete con la Chiesa?
"Crediamo nei suoi valori. La frequentiamo poco, ma siamo persone pulite. Ci siamo separati dalle nostre mogli, ma crediamo alla famiglia e la portiamo sul palco".

Come I Legnanesi definiscono i Legnanesi: un lavoro, un hobby, una passione?
"È un lavoro, ma è prima di tutto una passione. Non siamo mestieranti. Crediamo in quello che facciamo, ci piace. Riusciamo a divertire divertendoci".

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