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ATTUALITÀVogliamo crescita economica...O no?

02.07.13 - 11:06
La variabile "monetaria" sembra essere di gran lunga la determinante principale
Foto Ti Press
Vogliamo crescita economica...O no?
La variabile "monetaria" sembra essere di gran lunga la determinante principale

Da quando Ben Bernanke ha cominciato a ventilare la probabilità di un rallentamento del QE (cosiddetto “tapering”, degli acquisti di titoli per iniettare liquidità), i mercati hanno iniziato a perdere colpi e a soffrire aumenti di volatilità. Al momento, la variabile “monetaria” sembra essere di gran lunga la determinante principale dei corsi di mercato – al punto tale che, paradossalmente, quando dati economici battono le attese la borsa (USA) tende a calare. Il mercato è ormai talmente assuefatto alle iniezioni di liquidità che, come un drogato, ha bisogno di dosi sempre più massicce per “performare”. Tale stato di cose è paradossale ma non completamente irrazionale. Noi lo razionalizziamo come periodo in cui i corsi reagiscono più a variazioni nei premi al rischio che nelle fondamentali determinanti del flusso reddituale (atteso) da dividendi, cedole, ecc. Se tale stato di cose non durerà in eterno, sul breve termine crediamo che le borse beneficerebbero da dati (USA) “soft” piuttosto che “forti”; infatti questi ultimi aumenterebbero i timori di “heavy handed tapering”.

La “norma” di crescita economica USA dalla Grande Recessione in poi è stata un anemico 2%. Che questa norma non verrà superata nel breve e medio termine (anzi potrebbero, i dati, deludere al ribasso), è suggerito da valutazioni prettamente macro che vanno oltre l’analisi di dati abbastanza circoscritti (nella loro portata), quali sul settore immobiliare, acquisti di beni capitali, fiducia dei consumatori (che reagisce all’andamento di borsa piuttosto che predire quello del consumo). Il motivo macro principale che ci fa escludere l’ipotesi di un’immediata accelerazione del PIL ha a che fare con la debolezza intrinseca dei consumatori, a sua volta radicata nella scarsa crescita dei redditi personali e nel probabile incentivo ad ulteriore “deleveraging” (riduzione del debito) - escludente l’ipotesi che nuovo credito possa compensare la carenza di reddito.

Causa la non eccezionale crescita dell’occupazione e che essa si concentra in settori a basso salario, accoppiata alla parallela restrizione fiscale (che tra tasse e trasferimenti va a ridurre la crescita del reddito disponibile), il cosiddetto RPDI (Real Personal Disposable Income) cresce lungo un trend scarso, molto vicino all’1%. Siccome la maggior determinante del consumo è proprio RPDI - relazione quasi unitaria tra i due - è ovvio che, senza aiuto esterno dal credito il consumo farà fatica ad accelerare verso quel 2.5-3% di crescita che favorirebbe buona crescita del PIL reale (attorno al 3%).

 

Per quanto concerne il “deleveraging”, il debito attualmente pesa per il 93% dei redditi famigliari. Tale livello rimane ben oltre il rapporto medio di lungo termine. Durante gli anni ’90 il rapporto in questione si attestava a circa 74%, a confronto con la media del 99% nella decade passata. Dato che questa è stata notoriamente squilibrata (bolle speculative, eccesso di finanza e banche speculative) pare improbabile che la media 2000-10 possa essere a “norma”. Per questo, ed anche alla luce del fatto che i consumatori sanno che il destino di lungo termine del costo del debito è rialzista (Bernanke stesso, a marzo, ha previsto un aumento di 2-3 pp nel tasso a lunga entro il 2016), riteniamo che un “leverage” sostenibile implichi un rapporto debito/reddito tra il 74% (media degli “equilibrati” anni ’90) ed il 90% raggiunto alla vigilia del “credit boom” 2002-07. Quindi pare probabile che le famiglie cercheranno di abbassare il rapporto di parecchi punti percentuali – dall’attuale 93%. Ciò implica, stante la crescita non esaltante del RPDI, ulteriori cali nelle passività finanziarie in essere. In conclusione, tensioni macro suggeriscono che, nei prossimi anni il consumatore USA non dovrebbe avere le risorse (reddito più credito) necessarie per sostenere una crescita robusta del consumo, che pesa per il 73% del PIL.

 

Infine, anche se senza certezze, si sta profilando il rischio tassi di interesse più elevati per il consumatore e, invero, tutti gli agenti di spesa USA. Infatti, dopo le uscite di Bernanke su “tapering ed affini”, le curve dei futures monetari si sono impennate (probabilmente eccessivamente). Più pregnante però è stato il marcato aumento dei tassi di interesse statali a lunga, e contestuale aumento nei costi dei mutui ipotecari - il tasso in questione oggi sta a circa 4.25% (Bankrate.com), livello più elevato dall’autunno 2011.

Non sorprende quindi che, al di là di commenti entusiastici sull’andamento di vendite e prezzi immobiliari (tassi di variazione piuttosto che livelli assoluti - ancora molto bassi), indicatori compositi dell’economia americana non siano particolarmente eclatanti. Senza menzionare la recente revisione al ribasso sulla crescita del PIL reale nel T1 (1.8%) e le aspettative di consensus a solo 1.7% per il T2.

 

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