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BELLINZONACronache crossmediali da un conflitto prossimo remoto

09.05.14 - 07:00
Apre sabato la coraggiosa mostra "I am here now" sugli esuli balcanici da un'idea di Alan Alpenfelt.
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Cronache crossmediali da un conflitto prossimo remoto
Apre sabato la coraggiosa mostra "I am here now" sugli esuli balcanici da un'idea di Alan Alpenfelt.

BELLINZONA - Attore (anche shakespeariano), drammaturgo, inventore di una radio web (RadioGwen), frontman di una band clou della scena mendrisiottese che conta (i Black Fluo) e promotore di festival e progetti d’integrazione, Alan Alpenfelt è una di quelle persone indefesse che cento ne pensano e altrettante ne fanno. È lui una delle menti dietro a ”I am here now -  racconti dei giovani esuli dalle terre dell’Ex Jugoslavia” un viaggio multimediale fra quadri e registrazioni nella vita e nelle esperienze di chi, negli anni ’90, è stata/o costretta/o a lasciare l’ex-Jugoslavia. La mostra verrà inaugurata questo sabato 10 maggio alla Biblioteca Cantonale di Bellinzona.

Da dove nasce la necessità di volersi cimentare con un progetto come questo?
"È una domanda a cui non è facile rispondere. Penso che dipenda molto da una sensibilità puramente mia. Anche io sono figlio di migranti e mio padre è stato prigioniero in campo di concentramento. Questa cosa di voler dar voce alle storie di chi si porta appresso qualcosa di diverso l’ho sempre avuta e l’ho sempre portata avanti nei miei progetti radiofonici e teatrali".

La guerra dei balcani, sembra così lontana vista dalla Svizzera, come mai questo conflitto e non un altro?
"Perché le persone che le hanno vissute e oggi hanno 30 anni, camminano fra di noi e vivono con noi portandosi dietro storie incredibili e esperienze tragiche vissute quando erano poco più che bambini. Se all’inizio, quando domandavo loro di essere intervistati/e si stupivano del mio interesse dicendomi “Ma come c’è ancora qualcuno a cui interessa la Jugoslavia?” poi, mentre parlavano, si scoperchiava un ”Vaso di Pandora” di problemi tutt’altro che risolti. La guerra è lontana, sì, ma anche se è terminata non è ancora veramente finita".

Quali emozioni hai raccolto che non ti aspettavi di trovare?
"Queste persone sono arrivate in Svizzera con l’orgoglio di essere slavi, un popolo con una grande storia e prestigio, e sono rimasti traumatizzati da come venivano percepiti qui: come criminali e assassini. Un’epiteto “slavo”, che ancora oggi suona decisamente dispregiativo. Molti di loro sono ancora arrabbiati con l’Occidente per il ruolo che ha giocato, soprattutto mediaticamente, per dipingere la guerra senza veramente capirla, generalizzando volentieri in maniera imperdonabile".

Perché hai deciso di “drammatizzarle” e utilizzare degli attori piuttosto che utilizzare quelle originali?
"Avevo deciso sin da subito che non avrei potuto fare a meno dell’anonimità, che protegge sì le persone che raccontano, ma che permette anche alle storie di diventare universali. Volevo che diventassero dei veri e propri racconti con i quali chiunque potesse identificarsi. Un’altra motivazione è la chiarezza, per mantenere la propria potenza e per poterle riutilizzare in diversi contesti (la mostra, la radio) le interviste dovevano per forza di cosa essere registrate di nuovo".

È stato impegnativo dirigere gli attori?
"Sì, perché spesso tendevano ad interpretare mentre io volevo che restassero più neutri possibile. Solo in questo modo potevano veicolare il messaggio in maniera chiara e senza “colori” aggiuntivi. Quelli, poi, verranno forniti dai quadri astratti di Ravi Tironi che, diciamo, chiudono il cerchio. Non c’è niente come l’arte astratta per aiutare la gente ad immaginare".

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