Cerca e trova immobili

TICINOScudo fiscale: il Ticino vittima del boom(erang) bancario

07.01.10 - 09:07
La terza amnistia fiscale italiana ha centrato il bersaglio: Lugano
Ti-Press Francesca Agosta
Scudo fiscale: il Ticino vittima del boom(erang) bancario
La terza amnistia fiscale italiana ha centrato il bersaglio: Lugano

LUGANO - Dopo la fuga, il rientro: il terzo scudo fiscale riporta in Italia miliardi di capitali esportati clandestinamente in Svizzera dalla fine degli anni Cinquanta. "Il controllo del gioco non è mai stato in mano al Ticino", afferma lo storico Martin Kuder, che sta scrivendo un lavoro di dottorato sulle relazioni economiche bilaterali.

Centrato il bersaglio - "Voglio indietro i miei soldi": così il ministro delle finanze italiano Giulio Tremonti giustifica i suoi sforzi per far rientrare capitali dall'estero. La terza amnistia fiscale nell'arco di pochi anni sembra aver centrato il bersaglio: la Svizzera, il Ticino, Lugano. Stando al Ministero dell'economia, tra ottobre e dicembre sono stati rimpatriati complessivamente 95 miliardi di euro (141 miliardi di franchi) con un'imposta sostitutiva del 5%. Altri miliardi seguiranno verosimilmente nei prossimi mesi dopo la proroga dello scudo fiscale decisa a metà dicembre dal Consiglio dei ministri.

Guerra all'evasione fiscale - I soldi di Tremonti, naturalmente, sono quelli dei suoi connazionali, sfuggiti alle casse statali nel corso degli ultimi decenni. Non è del resto la prima volta che le autorità italiane dichiarano guerra all'evasione fiscale. "È lo sfuggire al fisco che spinge i grossi capitalisti in questo colossale affare di evasione tributaria", afferma, già nel 1963, un colonnello dei carabinieri, denunciando il contrabbando di banconote italiane oltre confine.

Il boom degli anni 1958-63 - In Ticino, in effetti, i capitali italiani giungono clandestinamente soprattutto dalla fine degli anni Cinquanta. Favoriscono tale fenomeno il boom economico degli anni 1958-63 e la crescente instabilità monetaria e politica nella Penisola, afferma Martin Kuder, che lavora per il Dizionario storico della Svizzera.

Entrate di 33 miliardi di franchi - Stando ai suoi calcoli, che si basano sulle statistiche della Banca d'Italia e dell'Ufficio italiano dei cambi, dal 1961 al 1970 giungono in Svizzera 33 miliardi di franchi in banconote. Fino al 1965, oltre la metà dei capitali esportati torna nella Penisola sotto la falsa veste di investimenti elvetici. Dopo il 1965, invece, il volume dei rientri scende sotto il 50%. La fuga di capitali prosegue anche nei decenni successivi, ma attraverso operazioni sempre più complesse che rendono difficile una stima.

Il "fascino" della Svizzera - Secondo Kuder, sono due i motivi principali che spingono gli italiani a trasferire i loro soldi in territorio elvetico: da un lato la volontà della borghesia di occultare al fisco i propri risparmi: "con il rafforzamento della sinistra, crescono i timori politici dei ceti abbienti". D'altro canto, dalla Svizzera è più facile investire liberamente i propri soldi sui mercati internazionali, ad esempio quello dell'eurodollaro.

Gli anni del Boom - Questo avviene soprattutto dall'inizio degli anni Sessanta, quando l'Italia si trova nella condizione, per certi versi paradossale, di esportare verso la Svizzera sia manodopera, sia capitali, spiega Kuder. Ciò si ripercuote sulla bilancia dei pagamenti e sullo sviluppo dell'Italia, dato che la fuga di capitali finisce per sottrarre fondi che altrimenti avrebbero potuto essere investiti nell'economia nazionale.

Le banche in Ticino - Oltre confine, a Lugano, grazie alla stabilità politica ed economica, si sviluppa invece la terza piazza finanziaria svizzera dopo Zurigo e Ginevra: "crescono gli sportelli bancari e il numero di impiegati", osserva Kuder. Oggigiorno la piazza finanziaria ticinese dà lavoro a oltre 15'000 persone ed è il primo ramo economico del cantone, con un contributo al prodotto interno lordo stimato al 17%, senza considerare il settore parabancario.

Importanza dei capitali italiani - L'importanza dei capitali italiani per lo sviluppo della piazza finanziaria ticinese è confermata dall'ingente deflusso di capitali durante il terzo scudo fiscale. Agli occhi dello storico, la sorpresa è invero contenuta: "Il controllo del gioco" - afferma Kuder - "non è mai stato in mano al Ticino, visto che il rischio del rimpatrio dei capitali non può mai essere escluso a priori".

Il segreto bancario ha un prezzo - Su queste rischiose fondamenta le banche ticinesi hanno quindi costruito e consolidato parte del loro successo, che ha inoltre beneficiato di condizioni quadro favorevoli. Secondo Sébastien Guex, uno dei principali studiosi della piazza finanziaria svizzera, dalla fine della Prima Guerra mondiale la Confederazione adotta una strategia "chiara e coerente" per attirare capitali dall'estero. "Il segreto bancario rafforza la piazza finanziaria svizzera e, durante le due guerre mondiali, permette di sfruttare l'esplosione fiscale nei paesi vicini", afferma il professore di storia dell'Università di Losanna.

Accordi di doppia imposizione - Il segreto bancario ha però anche un prezzo, osserva Guex, e ciò si manifesta per esempio nelle trattative sugli accordi di doppia imposizione, quando la Confederazione deve fare numerose concessioni, in particolare commerciali, per non estendere lo scambio di informazioni. La fuga dei capitali italiani resta invece un tabù: e così nell'accordo di doppia imposizione firmato a Roma nel 1976 - dopo trattative definite "lunghe e laboriose" dal Consiglio federale - Berna si rifiuta di menzionare la prevenzione dell'evasione fiscale nel titolo della convenzione.

Ats

Foto Ti-Press Francesca Agosta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Entra nel canale WhatsApp di Ticinonline.
NOTIZIE PIÙ LETTE