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«C'è stato un momento in cui mi sono detta: se devo vivere così, allora è meglio staccare la spina»

Il calvario lungo 4 anni di una giovane donna ticinese che ha visto la sua vita annullata dal Long Covid fra visite, incomprensione e rabbia: «Prima scalavo le montagne, dopo non riuscivo a salire nemmeno le scale di casa».
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«C'è stato un momento in cui mi sono detta: se devo vivere così, allora è meglio staccare la spina»
Il calvario lungo 4 anni di una giovane donna ticinese che ha visto la sua vita annullata dal Long Covid fra visite, incomprensione e rabbia: «Prima scalavo le montagne, dopo non riuscivo a salire nemmeno le scale di casa».

SAVOSA - Il sollievo, se così si può chiamare, arriva solo stando sdraiati nel buio e con gli occhi chiusi. Ma ci sono momenti in cui la coperta può arrivare a pesare e bruciare come fosse fatta di metallo incandescente. Inutile sperare che sopraggiunga il sonno, è un “lusso” di cui ormai si è persa la memoria.

Leggere qualcosa è fuori discussione, libro, smartphone o laptop generano un malessere lancinante: bastano poche frasi e le parole si ingarbugliano, sopraggiungono la nausea e il dolore. Vale lo stesso per la televisione.

«Sono arrivata a odiare il sorgere del sole, quando arrivava il mattino provavo una rabbia cieca», ci racconta la trentenne Martina* che solo oggi, dopo quattro anni di supplizi, può quasi affermare di «aver ritrovato quella me che conoscevo prima della malattia». Lo dice con timore e quasi in punta di piedi.

Il “mostro” con cui ha condiviso quasi un quinquennio - imparando a conoscerlo e infine (per quanto umanamente possibile) conviverci - ha un nome che spesso viene pronunciato un po' sottovoce, come se non fosse davvero una malattia: Long Covid.

«Sono passata dal fare su e giù per i Passi, a piedi e in mountain bike, al non riuscire più a scendere in lavanderia senza rischiare di svenire sul pianerottolo», racconta la giovane donna, «sono sempre stata abituata ad avere un corpo forte e scattante, quando non è stato più così, è come se tutto il mondo mi fosse caduto addosso. Ogni tanto riguardo le mie foto del “prima”, ero in forma e brillavo di entusiasmo, è difficile non provare la sensazione di avere perso una parte di me».

Tutto ha inizio con il primissimo vaccino Covid: «Sono stata malissimo, un dolore incredibile e un malessere generale che da quel momento in poi non si è più attenuato. Mi sono resa conto che qualcosa non era andato per il verso giusto, mi sono confrontata con il mio dottore, ma era un farmaco talmente nuovo che nessuno sapeva davvero cosa dirmi. Questa è stata un po' una costante di tutto il periodo del Long Covid, che è iniziato dopo che ho contratto il virus nel 2022 in una forma comunque piuttosto lieve, lì qualcosa dentro di me è andato in tilt».

I sintomi, infatti, iniziano a manifestarsi in maniera sempre più preoccupante: «Oltre al fiato inesistente e alle palpitazioni, c'è stata anche una semiparalisi della parte sinistra del corpo. Poi anche una nebbia mentale persistente, capitava che mi trovassi in giro per casa o per strada senza ricordare perché ci fossi finita. A un certo punto ho rinunciato a guidare l'automobile, non me la sentivo più».

Su tutto - sempre e comunque - domina costante la sensazione di malessere e di spossatezza: «Bastava un niente per esaurirmi: i rumori, le luci... una persona che parlava troppo forte o troppo rapidamente, il canto degli uccellini, il sole fra le foglie degli alberi. Qualsiasi cosa era fonte di dolore».

Un calvario è stata anche la ricerca di una cura, o anche solo di una diagnosi: «Sono stata rimbalzata di specialista in specialista, di esame in esame, mi hanno anche fatto iniziare un percorso di psicoterapia perché pensavano che fossi depressa e che il mio malessere originasse da lì. La dottoressa da cui sono andata è stata la prima a capire che quello che non andava non era nella mia testa. Mi ha detto: “Lei non sta male perché è depressa, è depressa perché sta male”. Alla fine sono arrivata a ottenere una diagnosi ufficiale di Long Covid, ma non è stato un momento risolutivo, anzi», continua.

«Quello che mi è stato detto è che, a parte l'ergoterapia, non c'era granché da fare e che “probabilmente” le cose sarebbero migliorate con il tempo. Tutto qui». Per lei «è stato il culmine della frustrazione in un percorso in cui mi sono sentita sola e abbandonata a me stessa. Passo dopo passo, schiaffo dopo schiaffo, dentro di me è cresciuta una rabbia e un disgusto enorme. Non solo non mi capivano i medici, ma spesso e volentieri anche chi mi stava attorno: “Ah ma stai ancora male?”, mi chiedevano o “Ma come, non va meglio?”. In quei quattro anni ho gradualmente perso la mia vita sociale, pensare di uscire era impossibile. Facevo fatica addirittura a leggere i messaggini di WhatsApp senza stare male».

Dalla famiglia arrivava appoggio incondizionato, ma anche lì restava la sensazione che nemmeno i propri cari capissero fino in fondo quello che stai passando: «Nel momento più buio sono arrivata a pensare che se avessi dovuto vivere per sempre quella “non-vita” tanto valeva staccare la spina, era un incubo e mi sentivo incompresa da tutti».

Una lieve svolta, in questo senso, arriva quando Martina trova sul web il contatto con un gruppo di malati di Long Covid prima svizzeri, poi ticinesi: «Ho trovato storie come le mie, simili in una maniera che faceva quasi paura. Lì ho capito di non essere la sola, eravamo molti e anche relativamente giovani».

Dare una legittimità alla malattia è stato il primo passo, il secondo quello di intraprendere un percorso di cura diverso: «Ho detto addio ai dottori, e ho preso un'altra via - forse più alternativa - di farmaci e terapie naturali. Dal confronto con gli altri del gruppo ho capito che ogni piccolo traguardo va celebrato, come riuscire a cucinarsi un piatto di pasta (e lavare la padella), o arrivare a piedi fino alla piazza del paese. Ma anche capire fino a dove puoi spingerti e quando non esagerare, per esempio chiedendo a qualcuno di prepararti la cena o preferire il bus alla passeggiata».

«Dopo quattro anni ho anche ripreso a fare sport ed è una sensazione bellissima, tornare a provare la fatica dei muscoli che hanno lavorato e non il dolore sordo della malattia», aggiunge.

Dimenticare gli anni difficili, ormai alle spalle ma sempre pesanti, è impossibile: «Quella rabbia che provavo oggi è diventata dispiacere, soprattutto di fronte all'opinione pubblica che svilisce e deride il Covid - e quindi anche il Long Covid - definendolo “un'influenza” o svilendolo. Penso a quello che ho passato, e sto passando io, e tanti altri in Ticino e in Svizzera, e l'impatto devastante che ha avuto sulle nostre vite: semplicemente non posso accettarlo.».

*vero nome noto alla redazione

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