Il fenomeno tocca un adolescente su tre. Ma con quali effetti? Lo psicoterapeuta Nicholas Sacchi: «Dipende dalla fragilità delle persone»
LUGANO - Tre quarti degli adolescenti svizzeri seguono sui social media influencer dalla “vita perfetta”, con contributi eccessivamente positivi.
È quanto ha rivelato poche settimane fa uno studio dell’Alta scuola di scienze applicate di Zurigo (ZHAW), che ha interpellato mille giovani elvetici tra i 12 e i 19 anni.
Secondo i ricercatori, un confronto con la vita apparentemente perfetta degli influencer può avere un impatto negativo sulla salute mentale dei giovani. È così? Lo abbiamo chiesto a Nicholas Sacchi, psicoterapeuta e Copresidente dell’Associazione ticinese degli psicologi.
Che impatto hanno gli influencer sui giovani?
«Se c’è un massiccio consumo di questo genere di contenuti allora significa che quello che producono è qualcosa che arriva, che è quello che cercano. Da qui a diventare un modello o a modificarne in qualche modo gli atteggiamenti nella vita reale… questo dipende da persona a persona, soprattutto dalla sua fragilità».
Però è una fase delicata della crescita.
«Ciò che possiamo dire è che un adolescente è in cerca dell’identità, di ciò che vorrebbe essere e che la società lo spinge a essere. Questo in tutti i campi della vita (familiare, sociale, economico-formativo, sessuale, sportivo…). In questo panorama di ristrutturazione dell’identità da un bambino - fortemente forgiata da quello che è la famiglia e la scuola obbligatoria - a un adolescente - dove le scelte si impongono e bisogna mettersi in gioco - il modello di un influencer che arriva e impatta con delle tematiche giovanili magari in modo semplice o semplificato potrebbe fuorviare, far pensare che il successo sia una cosa facile».
Quindi occhio anche ai contenuti troppo positivi.
«Se con modelli eccessivamente positivi si intende modelli in cui il fallimento non c’è, ognuno di noi perde il senso della realtà e il contatto con il fatto che fallire non significa essere non all’altezza, ma che si è fatto un tentativo per arrivare. Io faccio spesso l’esempio di Thomas Edison, che prima di arrivare alla lampadina ha sbagliato migliaia di volte. Se invece l’esempio è quello di un successo quasi aritmetico senza fatica siamo nel mondo dell’idealizzazione: il contrario del crearsi un’identità su una realtà fatta di prove ed errori».
Qui dipende da chi “influenza”...
«Se l’influencer, o comunque la persona che diventa un po’ il mito, passa il successo attraverso la fatica, gli insuccessi e la voglia di crescere, allora possono anche essere formativi, dare buoni consigli. L’importante è che nel seguire dei modelli non ci si aspetti che la vita reale sia sempre e solo contenuti di felicità».
Chi produce contenuti dovrebbe essere più cosciente dell'effetto che ha sulle persone, in primis sui più piccoli?
«Io trovo che chi si affaccia a questo mondo all’inizio immagina che dall’altra parte ci sia una sorta di sé stesso. Quando il numero di follower aumenta, c’è una pressione dall’esterno a essere quel personaggio. E c’è una pressione anche a far sì che i contenuti ricalcano quello che lo spettatore si aspetta. Molti a un certo punto, lo si vede, abbracciano delle cause sociali, sentono il peso della responsabilità. Altri - parlando degli estremi, chiaramente - vanno verso il tentativo di implementare ciò che gli viene richiesto per essere sempre in auge. Sono modi diversi di affrontare la notorietà. Non so se si riescono a prendere tutti questa responsabilità sociale, se la prendono sono attenti a nutrire anche la loro immagine di qualche contenuto di spessore».
Ma anche gli influencer soffrono...
«Quanti arrivati a un certo livello poi dopo riescono a sopportare questo peso della notorietà? Ci sono due fattori: la paura di perderla (si vede magari nei reality show, che li mandano in orbita in termini di notorietà e poi alla fine si rendono conto che erano su un piedistallo e dopo… come camminano sulle loro gambe?) viceversa c’è chi sprofonda nella propria notorietà (come è capitato a tanti, tra cantanti, poeti e scrittori). Ci sono persone schiacciate da tutta questa influenza che possono dare, e ricevere, e che non è facile da governare»
I ricercatori consigliano ai genitori di dire ai figli di guardare i contenuti in modo critico. Concorda?
«Non si può chiedere ai figli di maturare uno spazio critico nella loro mente, se prima non c’è stato qualcuno che in qualche modo glie l’abbia insegnato: c’è evidentemente la famiglia, ma anche la scuola. Per quanto concerne i genitori, la loro funzione è protettiva: non so quanto tempo possano poi dedicare a vedere video degli influencer con i figli, però se li si vede insieme si può fare da controbilanciamento. Per avere uno sguardo critico devono imparare a come si criticano le cose. E per farlo serve fare un dibattito, una discussione: “cosa hai fatto, cosa ne pensi”…»
La chiave sta nella comunicazione?
«A volte sento dire ai genitori che i loro figli di sedici anni non vogliono più parlare con loro. Io allora mi chiedo: ma quante volte vi siete parlati nella vostra vita prima? Vi siete presi il tempo per discutere? Si scopre che ci sono abitudini di vita che tengono più distanti che vicini. Ci si rende conto che i giovani cambiano, e a volte anche molto repentinamente per questo è bene mantenere un contatto altrimenti ci “scappano"».
Il consiglio è quello di guardare i contenuti con i propri figli?
«Dobbiamo spiegare, non vedere tutto insieme a loro - perché poi gli togliamo uno spazio intimo e di ritiro. Serve trovare lo spazio di parlarne, di discuterne e di dire cosa si pensa a riguardo. Questo scambio intergenerazionale facilita poi nella crescita a essere più aperti. Poi magari si è contro ai genitori lo stesso, però c’è la possibilità che il dialogo non sia per forza considerato una perdita di tempo».
In generale andrebbe limitato il tempo trascorso sui social media?
«Io penso che debba essere limitato (non demonizzato o escluso), perché i ragazzi stessi se ne accorgono, sentono che ne diventano dipendenti, che è una perdita di tempo. È un allarme di solitudine molto forte: si cerca di rimanere connessi a un carrozzone infinito che crea contenuti in continuazione e che alla fine però non lascia niente se non spossamento e una stanchezza fisica e mentale. Internet è uno strumento potentissimo (nel bene e nel male): ti porta una conoscenza infinita, dappertutto, ma porta anche all’esposizione di cose (pornografie, cronaca nera…) che alla lunga possono essere traumatizzanti».